Lo stile popolare del divenire

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All’epoca, quando fu formulata, la tesi fece scalpore. Gli intellettuali comunisti più intransigenti non tardarono a riconoscervi tracce d’idealismo e d’ingenuità . Molto sinteticamente, veniva avanzata l’ipotesi che i mezzi di comunicazione di massa permettessero l’ampliamento organico del pubblico e che, in sostanza, la cultura che promuovevano non si riferisse più alla lettura, ma ad altre forme di apprendimento legate in massima parte alle immagini e ai suoni, oggi diremmo all’audiovisivo. Eravamo nel 1958, il testo era Cultura e rivoluzione industriale e l’autore Raymond Williams. Dalla sua tesi il fondatore dei cultural studies traeva una conseguenza molto significativa: la crescita quantitativa del pubblico e la promozione di modalità  cognitive diverse da quelle tradizionali, creavano nuovi problemi destinati a influire significativamente sulla strutturazione della cultura.
Questo terreno analitico mi sembra il più adatto ad accogliere oggi una riflessione su Gilles Deleuze, o meglio su quei lavori che videro la luce solo dopo la sua morte avvenuta nel 1995 e, contemporaneamente, sullo stato attuale della critica deleuziana in Italia.
Seguendo le tesi Williams, il grande filosofo francese decise di sintetizzare il suo pensiero in una videointervista della durata di otto ore (Abecedario, DeriveApprodi) per renderlo appunto accessibile a un pubblico decisamente più numeroso di quello dei suoi lettori e studiosi, e sfornito di codici culturali tradizionali. Il deleuziano «scrivere per chi non sa leggere», se non lo si colloca sul terreno di «massa» della comunicazione audiovisiva rimane una vuota chiacchiera ad uso e consumo di chi, purtroppo, sa solo leggere e lo sa fare fin troppo bene.

Letture per analfabeti
Che in Deleuze ci fosse questo desiderio di comunicare la sua filosofia a un grande pubblico «analfabeta» (il che non vuol dire ignorante) è testimoniato non solo dall’Abecedario, ma anche da uno straordinario progetto che vide la luce, pure questo, dopo la sua morte. 
Nel 1997 l’editore francese Seuil mandò in libreria un meraviglioso libretto per bambini, L’oiseau philosophie: disegni coloratissimi ispirati a concetti ripresi da Conversazioni (ombre corte) e da Che cos’è la filosofia? (Einaudi), libri che Deleuze scrisse rispettivamente con Claire Parnet e Félix Guattari. Difficilmente lo troverete segnalato nelle bibliografie deleuziane – anche in quelle più dure degli specialisti – molto probabilmente perché l’autrice è considerata la bravissima disegnatrice Jacqueline Duhàªme, la quale propose l’iniziativa a Deleuze che l’accettò entusiasta tanto da voler dedicare il lavoro alla sua nipotina Lola. Anche oggi che il libro è uscito in Italia (L’uccello filosofia, edizioni junior), con una bella presentazione di Paolo Perticari che rivendica il significato «infantile» della pubblicazione riconoscendo i bambini come suoi destinatari privilegiati, difficilmente lo troverete segnalato nelle suddette bibliografie.
Il ritardo della traduzione (quasi tredici anni di distanza dall’originale) e la resistenza a mettere in discorso l’esistenza de L’uccello filosofia all’interno dell’attuale dibattito deleuziano, devono essere letti in una prospettiva più generale: la difficoltà  di riconoscere, e quindi di lavorare, sul desiderio di Deleuze di superare i limiti alfabetici della sua filosofia attraverso l’audiovisivo – sia esso videointervista che libro illustrato per bambini – per poter finalmente accedere ad una reale massificazione del suo pensiero. Da questo punto di vista L’uccello filosofia si collega direttamente all’Abecedario nel momento esatto in cui la disegnatrice sceglie come prima vignetta da illustrare la seguente affermazione di Deleuze: «Il giusto modo di leggere oggi, è quello di porsi di fronte a un libro così come si ascolta un disco, come si guarda un film o una trasmissione televisiva, come si sente una canzone: ogni atteggiamento di fronte a un libro che richieda per lui un rispetto speciale, un’attenzione di altra sorta, è qualcosa che giunge da un’altra epoca e che condanna definitivamente il libro». 
Un disco, un film, una serie tv, una canzone alla radio: è così che noi oggi leggiamo il «libro» Deleuze? Che l’opera straordinaria del filosofo richiedesse un’attitudine comunicativa di questo tipo, se ne accorse in tempi non sospetti il sociologo francese Jacques Donzelot quando, immediatamente a ridosso dell’uscita de L’Anti-Edipo nel 1972, in un saggio pubblicato sul numero 12 della rivista «Esprit», sosteneva che, a dispetto della presunta difficoltà  del libro, «Deleuze e Guattari non possono non essere letti se non come si ascolta qualcuno mentre parla», dunque, esponendosi al rischio di non seguire uno sviluppo lineare della riflessione (col titolo Un’anti-sociologia, questo lavoro lo si può leggere in appendice alla recentissima riedizione di Deleuze e Guattari, Macchine desideranti, ombre corte). 
Mentre Donzelot suggerisce una via «audio» per accedere all’ascolto di Deleuze (e Guattari), quali percorsi ci consigliano attualmente i deleuziani italiani? Dal vasto insieme delle pubblicazioni, ne viene qui isolato un campione limitato, ma comunque sufficientemente significativo da poter individuare una tendenza. 
Paolo Vignola in La lingua animale (Quodlibet) sceglie la letteratura, ossia la lunga riflessione che Deleuze ha svolto sui grandi scrittori occidentali, da Proust a Beckett, da Kafka a Masoch, da Melville a Lawrence, con particolare attenzione a quegli strani divenire-animali di cui la loro scrittura porta testimonianza: «Ecco quindi l’intenzione generale del libro: mostrare come il percorso filosofico di Deleuze e la sua attrazione per l’animalità  siano intimamente legati alle opere e alle vite di molti scrittori, nel senso che la maggior parte dei concetti deleuziani – ivi compreso, ovviamente il “divenire-minoritario” – sono stati creati attraverso la letteratura»..

Pensieri da grande schermo
Giuliano Antonello in Prospettiva Deleuze. Filosofia, arte, politica (ombre corte), privilegia la filosofia teoretica, dal momento che il capitolo più impegnativo del libro è dedicato a «L’ontologia antimetafisica di Differenza e ripetizione». Così l’autore motiva la sua scelta: «Il rovesciamento di quel grande e lungo errore costituito dal pensiero come rappresentazione, compito presente e mai dimenticato in tutte le opere di Deleuze, acquista particolare rilievo proprio con Differenza e ripetizione».
Claudia Landolfi in Deleuze e il moderno (Aracne,), punta sull’empirismo humeano che più di una passione giovanile (Empirismo e soggettività . Saggio sulla natura umana secondo Hume è il primo libro di Deleuze uscito nel 1953), risulta essere un compagno fedele che ha accompagnato il filosofo francese durante l’intero arco della sua opera: «L’attenzione per la filosofia di Hume, da parte di Deleuze, consente di guardare a tutta la sua produzione con un diverso orientamento: lo Hume deleuziano, e l’empirismo trascendentale che Deleuze “plasma” a partire da questi, porgono strumenti concettuali ineludibili per la comprensione del piano di immanenza, del desiderio e della micropolitica. È Hume, infatti, che stimola, su una spinta polemica iniziale nei confronti dell’hegelismo francese, la messa a fuoco di concetti con cui Deleuze si confronterà  per tutta la vita». 
Daniela Angelucci in Deleuze e i concetti del cinema (Quodlibet), infine, sceglie, aiutata da una scrittura meravigliosamente controllata (un piacere che pochi deleuziani concedono ai loro lettori), la teoria cinematografica sviluppata dall’autore nei due fondamentali L’immagine-movimento e L’immagine-tempo: «Per seguire il suo percorso sull’immagine cinematografica, la premessa teorica che dobbiamo accettare non riguarda dunque tanto il cinema, quanto la filosofia stessa, che non si configura come un’attività  contemplativa, riflessiva o comunicativa, come spesso si è creduto, bensì viene definita da Deleuze una “continua creazione di concetti”, allo stesso modo in cui il cinema è creazione d’immagini».
Naturalmente queste brevi indicazioni non restituiscono in nessun modo la complessità  dei lavori. Eppure, da tutti emerge un’unica tendenza: il ripiegamento di Deleuze su di un’esperienza cognitiva essenzialmente alfabetica. 
Si possono provare a combinare diversamente gli elementi del campione, il risultato non cambia: i libri di Antonello e dell’Angelucci rimangono rispettivamente introduzioni (di ottimo livello) ai principali testi (da Differenza e ripetizione fino a La piega) e concetti cinematografici (movimento, tempo e virtuale) di Deleuze. Quelli di Vignola e della Landolfi approfondimenti (anche questi ottimi) di aspetti specifici del pensiero deleuziano (letteratura ed empirismo). Combinati ulteriormente, produrrebbero lo stesso effetto: il libro della Landolfi rimane un’introduzione alla filosofia politica di Deleuze, quelli di Vignola e dell’Angelucci alle estetiche letterarie e cinematografiche del filosofo, quello di Antonello all’ontologia deleuziana. 

Una cornice di carta
Detta in breve, si lascia Deleuze nella rispettosa cornice del libro classico (anche lì dove l’Angelucci parte dal cinema) e così facendo si finisce col non dare seguito a quello che è il vero e proprio lascito ereditario definito dall’Abecedario e da L’uccello filosofia: la progressiva massificazione del suo pensiero attraverso l’audiovisivo. Le due opere, non a caso, escono postume e nello stesso anno, il 1997. Ci sono tutti gli estremi formali per considerarle un testamento.
Quella qui proposta è una una lettura delle monografie italiane che fa leva su una tesi apparentemente estranea alle loro, eppure, credo che il problema della massificazione sia sentito da Deleuze proprio in tutte le opere prese in esame dagli autori.
Un solo esempio: il romanzo poliziesco, uno dei generi di maggior successo della narrativa di massa. Nel 1966, in occasione del centesimo romanzo pubblicato dalla «Série Noire» di Gallimard, Deleuze dedica alla collana un bellissimo saggio in cui dimostra una profonda conoscenza del genere. Nella prefazione del 1968 a Differenza e ripetizione sostiene che i libri di filosofia dovrebbero essere una sorta di romanzo poliziesco nel senso che i concetti, al pari degli investigatori, devono intervenire in una situazione locale per risolvere un caso e fa di questo tipo di narrazione il segreto dell’empirismo. Ci troviamo di fronte non tanto all’ingresso di una forma culturale di massa in un trattato filosofico, ma al tentativo di trasformare un libro di filosofia in un romanzo di massa. 
Riandiamo alle monografie. In quella di Vignola l’incontro di Deleuze con il poliziesco non è nemmeno menzionato, eppure, si tratta di letteratura. In quella di Antonello, che tanto deve proprio a Differenza e ripetizione, l’episodio è menzionato, ma è completamente svincolato dalla «prassi» (la lettura di romanzi gialli) su cui di fonda. In quella della Landolfi non si dà  alcuna importanza al nesso poliziesco-empirismo, eppure è una monografia su Hume.
A ben vedere, da un capo all’altro della sua opera, dai libri polizieschi a quelli per bambini, dal cinema alla videointervista, Deleuze insegue le forme culturali di massa per dare al suo pensiero una chance che lo liberi dal destino di essere studiato solo dagli specialisti.
I libri di Antonello, Vignola, Angelucci e Landolfi sono dunque saggi importanti, non solo perché restituiscono l’attualità  e la vitalità  del pensiero deleuziano in Italia, ma anche perché definiscono un quadro teorico che deve necessariamente essere superato in funzione della massificazione culturale della sua opera. Quando tale processo sarà  ultimato finalmente si smetterà  di chiedere se «un giorno, forse, il secolo sarà  deleuziano», e inizieremo a vivere in un mondo nel quale analfabeti e bambini discuteranno e padroneggeranno con grande sapienza i più difficili concetti di Deleuze. Allora non sarà  più necessario scrivere su di lui.


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Dalla Breccia di Porta Pia (1870) ai Patti Lateranensi (1929) – in reazione alla Presa di Roma e alla perdita dello Stato pontificio – la vita dei papi si svolse entro le mura vaticane. I contatti con l’esterno furono affidati ai canali diplomatici. Benedetto XV (1914-1922) e Pio XI (1922-1939) erano stati al servizio diplomatico della Santa Sede prima di essere eletti papi. Anche Pio XII (1939-1958) fu a lungo nunzio in Germania prima di diventare Segretario di Stato. 

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