«L’assistenzialismo uccide Atene e contagia gli Usa»

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WASHINGTON — «Obama è terrorizzato dal collasso dell’Europa. Per il rischio di contagio e per il calo dell’export Usa attraverso l’Atlantico, dice. In realtà  perché il fallimento del modello europeo al quale lui si ispira lascia la presidenza democratica nuda, senza più una proposta credibile. Rimane solo la fiducia nel ruolo dello Stato che non solo è mal riposta, ma crea un clima socioeconomico e politico che ci fa camminare col freno tirato: un clima nel quale la cultura dei “takers”, quelli che prendono dal “welfare” pagato dal contribuente, prevale su quella dei “makers”: la gente che fa, che produce ricchezza, che può riportarci sulla strada dello sviluppo, se non la soffochiamo con tasse e regole».
Venire qui, nella sede dell’American Enterprise Institute (Aei) al 1150 della 17esima strada di Washington e incontrare il suo presidente Arthur Brooks, forse il più influente ideologo della campagna elettorale repubblicana, aiuta a capire come sia possibile che un candidato come Mitt Romney, poco amato, senza carisma e che si rifiuta tenacemente di tassare di più i ricchi, abbia la possibilità  di battere Barack Obama.
Arthur Brooks (nessun rapporto col «columnist» del New York Times), è uno strano tipo di intellettuale «on the road»: dopo una gioventù fatta di esperienze diverse, anche musicali (per due anni in Spagna, ha suonato il corno nell’orchestra sinfonica di Barcellona), ha insegnato in varie università  e da quattro anni guida un istituto che è fucina ideologica del pensiero conservatore. In questa campagna elettorale si è dato il ruolo di condottiero di una battaglia per porre al centro dell’offensiva anti-Obama il valore etico — prima ancora che materiale — di un capitalismo basato sul liberismo imprenditoriale.
E, ora che la crisi europea si avvita, Arthur Brooks non perde l’occasione per lanciare la sua diagnosi impietosa: «Ci accusavate di muovere una critica ideologica, preconcetta, al vostro modello sociale. Ma io ho visto, addirittura toccato, la sua insostenibilità  fin dai miei anni giovanili. Da quando, tanto per dirne una, in Spagna un mio compagno d’orchestra che suonava uno strumento a fiato, dopo essersi spaccato le labbra per aver voluto strafare a un concerto privato, ha continuato a percepire per vent’anni lo stipendio, pur avendo smesso di lavorare».
L’Europa ha sbagliato molto, ma non è la sola. Non rischiate di farne una caricatura?
«Abbiamo tutti un enorme rispetto per la storia e la cultura del vostro continente. Ma il modello che avete scelto è fallimentare. Importarlo porterebbe anche l’America al disastro: per questo ci sentite così animosi. Per questo siamo duri con Obama. E non è solo una questione economica: almeno il vostro “welfare”, costosissimo e insostenibile, fosse servito a far sentire i popoli soddisfatti. Invece no: lo Stato-balia ha reso la gente ancora più infelice. Non ci crede? Sondaggi e statistiche dicono che i Paesi più assistenziali sono anche quelli più insoddisfatti e con meno nascite».
Così Brooks, sfidando i venti di sfiducia nel mercato che soffiano anche in America da quattro anni, alimentati dagli eccessi del capitalismo finanziario e dal crollo di Wall Street, ha deciso di lanciare una campagna etica. Il suo ultimo libro, «The Road to Freedom», la strada verso la libertà , è stato presentato dai media americani come un manifesto ideologico per la campagna di Mitt Romney. Che, da ex imprenditore, si ispira agli stessi valori, ma forse non ha voglia di legarsi a uno schema troppo rigido. E anche Brooks, che sta trasformando l’Aei — la centrale dei «neocon», gli «esportatori di democrazia» — in un’entità  che guarda di più ai cambiamenti interni, vuole tenersi le mani libere.
L’Aei, mi spiega Brooks in una pausa nella sua tournée di «evangelizzazione liberista», è sempre la casa di Dick Cheney, Paul Wolfowitz e degli altri «crociati» dell’era Bush. Ma se l’obiettivo di «esportare» democrazia rimane valido, oggi la priorità , per restare un modello, «è ricostruire un’economia Usa sana, non assistenziale. Altrimenti sarà  deriva greca».
I conti Usa sono brutti, ma il paragone con Atene…
«Certo, la nostra economia è più solida, è molto più vasta. Ma anche il debito è divenuto enorme. Non dobbiamo correre rischi: si ripetesse da noi un collasso finanziario come quello della Grecia, sarebbe una tragedia non solo per gli americani, ma per il mondo intero. Amici e avversari. Pensi solo alla Cina. Oggi ci sfida, ma senza l’America che le ha dato un modello, un mercato, il “free trade” garantito, il gigante asiatico oggi sarebbe ancora un Paese poverissimo e isolato. Per questo dobbiamo liberarci di Obama che ci manda a picco con la sua mentalità  socialista».
Va bene la campagna elettorale esasperata, ma anche lei, un intellettuale, con la battutaccia su Obama socialista…
«Lasciamo stare il marxismo. Qui parliamo di un presidente che non riesce a capire che il successo dell’America e la sua superiorità  morale sono frutto della libertà  e dello spirito d’impresa. Per lui redistribuire è più importante che creare nuova ricchezza. Parla sempre di interventi pubblici, ha in mente uno Stato socialdemocratico. Non è sovietico, d’accordo. Ma è uno svedese. Per lui “fair”, giusto, non è premiare chi osa ma garantire con le tasse un livellamento dei redditi. È la malattia che sta uccidendo Grecia e Spagna e che lambisce anche l’Italia».
Certo, l’Europa alle corde è difficile da difendere, ma il suo welfare ha prodotto anche coesione sociale.
«Senta, una parte dell’economia europea è pura finzione. Parlo della Spagna, il Paese che conosco meglio. Tutto finto, dai tempi del generale Franco: uno Stato corporativo e un modello produttivo semi-socialista. Non sta in piedi. Serve un altro paradigma. Se è lo Stato a doversi occupare dei vecchi e anche dei giovani, non ti senti responsabile, tiri i remi in barca: ecco la mentalità  assistenzialista. Un aiuto alla famiglia? Macché, addirittura la indebolisce: Italia e Spagna, culle del cattolicesimo, hanno i più bassi tassi di fertilità  d’Europa. E lo dico da cattolico».
L’America, comunque, non è un buon modello. La crisi è partita da Lehman e anche qui il debito pubblico straripa. Nella galleria dei campioni della spesa, poi, ci sono anche i busti di presidenti repubblicani: l’ultimo Bush, Nixon, Eisenhower.
«Su questo ha ragione. Quando scopri che il 62 per cento dei poliziotti californiani che vanno in pensione sono disabili capisci che l’America non rischia di diventare una socialdemocrazia assistenziale: lo è già . L’unica differenza è che abbiamo una cultura più favorevole all’impresa. È da qui che dobbiamo ripartire. Per il resto è vero che all'”establishment” repubblicano basterebbe rendere un po’ più efficiente il welfare attuale. Romney può dare una spallata, ma per farlo deve puntare sul valore etico del mercato. È un’altra cultura, ci vorrà  tempo per farla maturare. Forse fra dieci anni avremo come presidente Paul Ryan: uno che dice già  oggi le cose giuste a un Paese non ancora pronto».


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