«Ispiratevi alle città del Rinascimento»
Se l’Italia e la Grecia hanno un grande passato e un modesto presente ci sarà pure una ragione. Marcia Christoff Kurapovna l’ha individuata nello Stato nazionale. Mentre Atene, Corinto, Tebe prosperavano e seminavano civiltà , mentre le città rinascimentali italiane e le repubbliche marinare fiorivano e preparavano la modernità , ora le entità Italia e Grecia sono quasi diventate sinonimi di crisi e di autoinganno: perché nell’Ottocento hanno scelto il modello sbagliato, romantico ma sbagliato. La signora Kurapovna è una studiosa di questioni europee e autrice di un libro sulla Seconda guerra mondiale in Jugoslavia, Shadows on the Mountain, che ha fatto discutere. Sull’opportunità di riprendere in considerazione il modello delle città -Stato ieri ha pubblicato un articolo sul Wall Street Journal Europe e ha dato questa intervista al Corriere.
Lei fa un’analisi molto radicale di Italia e Grecia. Li considera Stati falliti?
«Vedo lo Stato greco come un fallimento. Ho vissuto ad Atene negli anni Novanta, è stato piacevolissimo, l’ho amata molto. Adesso è un incubo. Per l’Italia è diverso, rimangono industrie eccellenti, non è ancora a quel punto. L’Italia sarà sempre grande in termini di bellezza, scienza, letteratura. Ma le questioni fondamentali che stanno alla base della mia ricerca, che ha un interesse filosofico, sono due: come può l’Italia tornare grande, in termini di status; e stabilire se lo Stato centralizzato funziona».
Prima la risposta alla seconda domanda.
«Non funziona, è davanti agli occhi di tutti. L’idea di one-size-fits-all, di una politica che vada bene per l’intero Paese, è sbagliata. Venezia era Venezia, Genova era Genova, Firenze era Firenze: le repubbliche marinare e i comuni avevano una loro personalità . Ogni parte dell’Italia era unica. Con il risultato che le città -Stato erano in competizione tra loro e questo era il motore della crescita, dell’innovazione, del potere. Nel Rinascimento si premiavano i talenti e nasceva l’uomo economico. Il caso di Lucca e del suo leader Paolo Guinigi che tennero a distanza i Visconti di Milano è un esempio straordinario di indipendenza che produsse banca e industria. L’Italia non è più così».
Ma era una terra divisa.
«Era una terra senza governo centrale. Ma dopo il declino del Sacro Romano Impero, l’Italia era tenuta unita dalla concorrenza economica tra centri locali, tra città -Stato. Fu un periodo di sviluppo straordinario, senza precedenti, che creò prima ricchezza e poi virtù civica. I rapporti con il resto dell’Europa e del mondo crebbero, le esportazioni e le importazioni anche. Una dinamicità che si è poi persa».
Colpa dello Stato?
«Oggi mi pare che gli italiani abbiano paura delle imposizioni dello Stato centrale. Quando trovo italiani e greci all’estero vedo che in genere hanno grande successo, sono abili e di talento. In casa no. Credo che la ragione stia nel fatto che si sentono addosso l’imposizione politica inefficiente dello Stato. C’è la paura dello Stato centralizzato e inefficiente».
È stata dunque un errore ottocentesco l’unità nazionale italiana?
«Comprensibile data la realtà europea del periodo. Un’idea romantica. Ma l’unità dell’Italia la capisco ancora meno di quella della Grecia, che almeno fu dettata dal disfacimento dell’Impero Ottomano. Garibaldi e Cavour li capisco meno: unire qualcosa che non avrebbe funzionato. Morto Cavour, poi, è mancata ogni leadership, non si sono avute più soluzioni pratiche».
Ora l’altra questione: come può l’Italia tornare grande?
«Per spiegarlo uso l’esempio del Sud Tirolo (l’Alto Adige, ndr). Quando ogni regione si auto-organizza, le cose riprendono a funzionare, come lì. Quando si dà uno stop alle interferenze e alle imposizioni di Roma, intesa come centro dello Stato, l’innovazione e la crescita lievitano, scompare la paura dello Stato. E la competitività ne guadagna enormemente. Questo, credo, è quello che l’Italia dovrebbe imparare dalla sua storia».
Cosa pensa della Lega Nord?
«Confesso che inizialmente l’ho vista con simpatia. Quando è cresciuta mi pare che si sia invece persa, che non abbia più avuto spinta innovativa».
Ma lei dunque immagina un’Italia delle regioni, dei comuni?
«Come esito finale sì, delle regioni. Il primo passo necessario, probabilmente, sarebbe la separazione tra il Nord e il Sud. Per togliere paura ad ambedue le entità . Poi si dovrebbe andare verso regioni autonome, che si governano da sole. Dopo un po’ si potrebbe introdurre qualcosa che dia un feeling simbolico di identità italiana, ma niente di più. Come in alcuni Paesi è la monarchia».
Questa sua idea di Stato negativo vale solo per i Paesi mediterranei oppure anche per quelli del Nord?
«Particolarmente per quelli mediterranei. Ma vale anche per gli altri. Io penso che, come entità politica, l’Europa sia finita. Credo nell’Europa culturale, nel senso dei valori dell’Occidente. Ma per il resto penso si debbano avere indipendenza, specializzazione, capacità di affrontare i propri problemi. E ognuno con la propria moneta».
Politicamente fattibile?
«Politicamente no, almeno per i prossimi 50 anni. Questione di mentalità . Ma intellettualmente praticabile subito. Credo che molta gente in gamba ci stia già pensando».
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