L’illegalità  costituente di un bene comune

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Quella del teatro Valle, che ha da pochi giorni festeggiato il primo anno di occupazione, non è la prima azione politica del movimento degli intermittenti dello spettacolo. A Roma ci sono già  le esperienze dell’Angelo Mai e del Cinema Palazzo, una quindicina di anni fa ricordiamo quella del Teatro Polivalente Occupato (Tpo) di Bologna, che avvenne quasi in contemporanea con il movimento degli intermittenti francesi, da molti ricordata come l’esperienza fondativa dei movimenti del precariato – culturale e non – che hanno rivendicato il reddito minimo di base e una riforma welfare all’altezza delle trasformazioni del lavoro contemporaneo. Nel corso di pochi mesi, l’occupazione del Valle ha tuttavia assunto una rilevanza eccezionale poiché – come si legge nei saggi di Ugo Mattei, Federica Giardini e del drammaturgo argentino Rafael Spregelburd contenuti nel pamphlet Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni (DeriveApprodi, pp. 95, euro 5) – è diventata un’«esperienza di legalità  costituente». La definizione è del giurista Ugo Mattei, che ha collaborato allo Statuto della Fondazione «teatro Valle bene Comune», e non si riferisce solo alla capacità  del movimento – che è poi di tutti i movimenti che incidono nella realtà  – di modificare i confini tra la legalità  e la legittimità  in un ordinamento giuridico, bensì alla capacità  di creare nuovo diritto e, con esso, una nuova istituzione. Per questa ragione il Valle rappresenta un balzo nel futuro. 
Questa capacità  «generativa» (la definizione è di Federica Giardini) dovrebbe essere tuttavia valutata in un’ottica più ampia rispetto all’intelligente posizionamento del Valle nel dibattito sui beni comuni, in particolare quelli «immateriali» come la cultura o l’arte. È più di una sensazione quella che emerge nella lucidissima introduzione scritta dagli occupanti: l’occupazione è servita, per la prima volta, a «nominarci lavoratrici e lavoratori dello spettacolo». E ha prodotto una «trasformazione»: spostare il conflitto «dal terreno dell’eccezione culturale a quello dei diritti e del reddito». In un ambiente come quello dello spettacolo, non diversamente da quelli del lavoro autonomo delle professioni intellettuali o culturali, questa “trasformazione” è tanto più significativa perché porta con sé una critica sociale alla divisione del lavoro materiale e astratto, intellettuale e esecutivo, che rompe le frontiere imposte dal corporativismo e dall’individualismo. Questa critica viene interpretata dagli occupanti come una trasformazione del rapporto tradizionale tra arte e politica ed è la premessa per costituire una pratica comune. Elinor Ostrom l’ha definita commoning, cioè la capacità  di produrre relazioni e atti che producono l’attualità  dei beni comuni. Al Valle esiste la consapevolezza che questa pratica permetterà  di riappropriarsi delle funzioni decisionali che l’esercizio della democrazia neoliberale e postberlusconiana non contempla più. Quello che oggi è l’auto-governo del teatro, e domani – con la creazione della Fondazione – diventerà  una forma politica costituente, rappresenta la reinvenzione del governo a partire dalla riappropriazione dei tempi e dei modi della produzione. 
Gli strumenti sono quelli contenuti nello Statuto pubblicato in coda al volume: pienezza della sovranità  assembleare che elabora decisioni con il metodo del consenso, e non con quello della maggioranza; turnarietà  delle cariche sociali (cioè il direttore artistico, come il comitato dei garanti) e applicazione del principio di collegialità  esteso a ogni carica; azionariato diffuso e crowdfounding con l’utilizzo delle risorse pubbliche. Questi accorgimenti sono solidamente ancorati nel dettato costituzionale, ad esempio l’articolo 43 che – come ricorda Mattei – stabilisce la gestione partecipata dei beni comuni da parte dei lavoratori e degli utenti e, così facendo, potrebbe essere applicato alla scuola, alle biblioteche, agli ospedali, le istituzioni sociali travolte dalla scomparsa dello Stato nella gestione della cosa pubblica. Questa idea garantisce la proprietà  sociale di un bene, rendendola accessibile a tutti, e non è un caso che stia ispirando le esperienze come il teatro Garibaldi a Palermo, il Coppola di Catania, l’Asilo della conoscenza e della creatività  a Napoli, Macao a Milano, il teatro Marinoni a Venezia. Se, dunque, è questa la direzione presa dall’incessante lavoro di «giuridicità  costituente», allo stesso tempo il Valle non può essere spiegato solo come un’esperienza giuridica. Se di corpi, o di vissuti incarnati dobbiamo parlare, di divenire incessante delle identità  e delle differenze (queer, scrivono gli occupanti), allora bisogna affermare che l’autonomia e la cooperazione che nutrono tanto la rivolta dei beni comuni, quanto il discorso sui diritti del lavoro intermittente, sono il risultato di una soggettività . Fluida, risultato di concatenazioni e non di somme o rappresentanze, quindi vulnerabile e sempre a rischio di dispersione. Ma pur sempre attiva, e immanente alle forme produttive e giuridiche. Basterà  per diventare una forma politica?
Questa è la scommessa del Valle. E, visto che non è una scommessa sull’esistenza di Dio, bensì sulla realtà  possibile della politica contemporanea, allora conviene a tutti considerare patrimonio comune le istituzioni e le economie collaborative che questa esperienza riuscirà  a produrre.


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