LEZIONI DI LEGGEREZZA, RITORNA GEORGETTE HEYER, LA JANE AUSTEN ROSA

by Editore | 6 Luglio 2012 6:43

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Le famose “letture sotto l’ombrellone” quest’anno per molti si faranno soprattutto sul balcone di casa in città , magari in canottiera e agitando un ventaglio: in questa situazione di vacanza non necessariamente meno piacevole di altre, sarà  più rinfrescante, riposante, pacificante, leggere: Christian: «Non penso che la durezza della mia testa superi quella di un’altra parte del mio corpo». O invece: Charles: «Demonio! Volete sposarmi, disgustosa, abominevole ragazza?». Cioè ce la spasseremo di più con il secondo volume della trilogia pornodomestica contemporanea Cinquanta sfumature (questa volta, dopo di grigio e prima del rosso, di nero), protagonista una giovane coppia tutta firmata che a Seattle, tra impressionanti lussi briatoriani, geme per migliaia di pagine mediante incessanti trastulli genitali: oppure con Sophy la Grande, romanzo ultrasessantenne, ambientato nel favoloso mondo della aristocratica Londra primo Ottocento, che ci restituisce le virtù mirabolanti, antiquate e tuttora sognate, del corteggiamento rispettoso e adorante di ricchi gentiluomini a caccia di mogli vergini e impertinenti, intoccabili fanciulle, ereditiere massimo ventenni, e tra loro un darsi sempre del voi, molti malintesi e baruffe e dispetti brillanti, e l’amore che nasce a poco a poco, ma nessuno di loro lo vuole ammettere, e comunque mai neppure uno sfiorarsi delle mani?
Sarà  il caldo, e anche una certa barba dato che leggere di sesso è meno simpatico che farlo (ma forse non è così per tutti, visto che in Italia Cinquanta sfumature di grigio è già  ai primi posti in classifica, e negli Usa la trilogia ha reso l’autrice, la casalinga inglese E. L. James, ricca quasi come la Rowling), ma sembrerebbe più divertente rimandare la lettura delle penetrazioni carnali ai tempi di una bronchite o di altro accidente, e invece penetrare subito nel palazzo di Lord Ombersley, in Berkeley Square. «Il maggiordomo, riconoscendo al primo sguardo – come più tardi ebbe a riferire ai suoi meno acuti subordinati – l’unico fratello ancora in vita di sua signoria, rivolse a sir Horace Stanton-Lacy un profondo inchino e si permise di dire che sua signoria, per quanto non a casa per i meno intimi, sarebbe stata lieta di vederlo ». Si può resistere, al caldo di luglio poi, e con tutto il vorticare paludoso di notizie politiche ed economiche in continuo su e giù, a questo fiabesco Paese delle Meraviglie che sta oltre lo specchio della nostra quotidianità  e a distanza siderale dal cincischiamento erotico del gossip contemporaneo? Non esiste alcuna puzza letteraria sotto il naso che possa impedire di lasciarsi andare, anche di nascosto, a Sophy la Grande, in cui nulla ci può sorprendere se non il fatto che lo stiamo divorando proprio perché ovvio.
Sophy, troppo alta per essere bella
(siamo agli inizi dell’800) è però affascinante, ricchissima, gaia, spiritosa, impertinente, disubbidiente, indipendente; viene affidata dal padre che ha affari in Brasile, alla nobile noiosa zia piena di figlie e figli, e apriti cielo, la birichina sconvolge l’ordinata quotidianità  della famiglia molto bon ton, mandando in frantumi fragili infatuazioni amorose e fidanzamenti sbagliati, e combinando matrimoni perfetti: in più tiene a bada i troppi aspiranti alla sua mano e affronta biechi ricattatori. Happy end di massima soddisfazione, perché il giovane gentiluomo e la giovane gentildonna che sin dall’inizio si detestavano, finalmente (per quanto cugini primi) si dichiarano il loro reciproco amore. Appunto: «Volete sposarmi, disgustosa, abominevole ragazza?».
Questo fulgore di appassionanti banalità  ci viene offerto ancora una volta, con demoniaca sapienza, da Georgette Heyer, grafomane scrittrice inglese di mai accantonati bestseller, nata 110 anni fa e defunta per un cancro a 72 anni nel 1974. Autrice di 56 romanzi (storici, thriller, contemporanei) la signora dal mento aguzzo e dallo sguardo smarrito divenne una assoluta celebrità  con i 34 romanzi (tra cui Sophy la Grande) ambientati in uno dei periodi più frivoli, liberi e fastosi della storia d’Inghilterra, gli anni Regency (1811-1820), cioè della reggenza del principe di Galles, dal momento in cui il padre Re Giorgio III fu dichiarato pazzo e non in grado di regnare, sino alla sua morte, quando il principe salì al trono come Giorgio IV: in realtà , si chiamò Regency, con i suoi lussi e la sua miseria, le sue guerre e le sue architetture, la sua industrializzazione e i suoi eccessi, un periodo più esteso, dai riflessi della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche sino all’incoronazione della giovane Regina Vittoria nel 1837, quando iniziò quel luttuoso periodo detto appunto vittoriano, che spense ogni splendore ed errore della immemore high society degli anni precedenti. Pare che la signora Heyer si documentasse attentamente sul periodo, consultando migliaia di libri, ma soprattutto ispirandosi ai capolavori di Jane Austen, che di quell’epoca era contemporanea. Quindi tafferugli tra critici, chi relegandola sprezzante nel rosa più romantico, cioè nel femminile, quindi giudicandola indegna della loro attenzione, chi fuori di sé per il tentativo di imitare un monumento della letteratura inglese, chi diventandone un lettore accanito: di sicuro la Sovrana Lettrice, regina Elisabetta, che acquistava personalmente da Harrods i suoi romanzi a dozzine alla volta; invitata a corte, a una cena in cui lei era la sola donna oltre ad Elisabetta, la Heyer rimase scandalizzata dai modi del principe Filippo, che seduto alla sua sinistra, passò metà  del tempo voltandole le spalle. L’ammirava molto la venerata romanziera A. S. Byatt che le dedicò un lungo articolo intitolato “Georgette Heyer è una scrittrice più brava di quanto pensiate”, e alla sua morte un commosso necrologio. Il New York Timesnon trascurava mai di recensire un suo nuovo romanzo e nel 1960 l’Attorney General Lord Somervell lasciò la sua amatissima collezione della produzione Heyer alla Inner Temple Library; sono molte le biblioteche italiane che conservano i suoi romanzi, del resto sempre ripubblicati da varie case editrici.
Adesso Sophy la Grande (che in edizioni precedenti è stato anche intitolato L’inarrestabile Sophy) esce con l’ormai nota copertina rossa di Astoria, una giovane casa editrice fondata da Monica Randi che, alla ricerca di intelligente leggerezza e raffinata ironia, pubblica soprattutto romanzi del primo ’900, soprattutto inglesi, soprattutto scritti da donne. Per la prima volta il testo è quello integrale (lo si sforbiciava bramando lettrici tonte) nella classica e ottima traduzione di Anna Luisa Zazo più quella delle parti mancanti di Bruna Mora. Dell’epoca Regency e della sua alta società  che non aveva alcun contatto con la misera realtà  di Londra, la pignola signora Heyer sa far rivivere gli arredamenti e gli abiti che stavano malissimo, le diete (patate nell’aceto!) e la controdanza (il valzer una pericolosa novità ), le passeggiate con l’ombrellino e le cavalcate ad Hyde Park, unico passatempo femminile per attirare l’attenzione dei possibili spasimanti. Bravissima nell’evocare la rigida etichetta dell’alta società  ferocemente pettegola, che impediva alle donne parole e gesti ritenuti “inappropriati”, “sconvenienti” o addirittura scandalosi (comprare personalmente una pariglia di cavalli, guidare un faethon a timone alto, cavalcare nella strada dei club ovviamente riservati ai gentiluomini, ecc., non essere sempre accompagnata da un’altra donna o scortata da un parente maschio). Non disdicevoli invece i divertimenti maschili, il gioco a carte in cui perdere patrimoni, la boxe, le cortigiane e le attrici da mantenere riccamente. Impossibile per ogni signora onorata, un qualsiasi lavoro neppure in casa (al massimo, un ricamo) tra uno stuolo di maggiordomi, governanti, staffieri, lacchè, camerieri, cuoche, sguattere, vestiariste, parrucchiere. Le giornate passate a fare inchini, a scrivere lettere e a conversare, sul nulla che non fosse il loro mondo (compresi gli amici in guerra), senza annoiarsi! Più che la meravigliosa inimitabile scrittura di Jane Austen, sono i film ispirati ai suoi romanzi (le tre versioni di Orgoglio e pregiudizio, e poi Emma, Persuasione, Ragione e sentimento, Mansfield Park) a ricordare in qualche modo anche i romanzi Regency della Heyer. Di cui si vorrebbe raccontare una vita interessante tenendo conto che su di lei sono state scritte, anche recentemente, affannate biografie (Biography of a bestseller,di Jennifer Kloester, editore William Heinemann). Ma la signora pare avesse un pessimo carattere, non rilasciò mai una intervista, non volle mai incontrare le sue lettrici che del resto disprezzava, scrisse il primo romanzo a 19 anni, a 23 sposò un ingegnere minerario che dipendeva finanziariamente da lei, che l’amava tantissimo e che si suicidò due anni dopo la sua morte; giovane sposa, visse col marito in quello che allora si chiamava Tanganika e in Macedonia, ebbe un figlio, Richard Rougier, bello e intelligente, diventato consigliere della regina; Hayer faceva uso smodato di sigarette e psicofarmaci, continuò a litigare per i compensi con gli editori combattendo furibonda contro il fisco che aveva tentato di frodare e che secondo lei la perseguitava. Il Regency era finito da 150 anni, ma ricreandolo, lei forse rimpiangeva quell’epoca in cui nessuno le avrebbe chiesto di lavorare per mantenere la famiglia e soprattutto di pagare le tasse.

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