Legami tribali e minacce terroristiche un Paese ancora ostaggio di Al Qaeda

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Non è ancora domani per lo Yemen. La rivoluzione aveva acceso le speranze, ma le vecchie strutture tribali da una parte e lo spettro dell’islam radicale dall’altra ripropongono l’immagine di un Paese instabile e svegliano antichi timori. Nelle stesse ore del sequestro del carabiniere italiano, un gruppo di uomini armati, esponenti delle tribù fedeli all’ex capo dello Stato Abdullah Saleh, faceva irruzione nel ministero dell’Interno, prendendo in ostaggio gli impiegati e rivendicando un ruolo nelle forze di polizia, in un’aperta sfida alla leadership del presidente Abdrabbuh Mansour Hadi. Volevano che qualcuno mantenesse gli impegni presi dal vecchio regime, fra cui, paradossalmente, c’è anche l’aiuto nella repressione dei rivoluzionari.
Qualcuno rivendica anche di aver partecipato alle operazioni militari anti-Al Qaeda, gestite dal vecchio regime con il sostegno americano per liberare dai militanti islamisti le città  del sud di cui il governo di Sana’a aveva perso il controllo. Ed è facile vedere una minaccia implicita in queste rivendicazioni: chi non verrà  accontentato si prepara a passare dall’altra parte.
I legami tribali si incrociano con rivendicazioni politiche e con progetti terroristici, anche
nella gestione dei sequestri, incubo soprattutto del sud. E pensare che la partenza di Abdullah Saleh, dopo un anno di proteste, aveva suscitato speranze. Al suo posto era arrivato a furor di popolo l’ex vicepresidente, Abdrabbuh Mansour Hadi. Le promesse di rinascita erano state accolte dall’impegno internazionale a sostenere i bilanci di Sana’a, prima che le difficoltà 
economiche trasformassero la crisi in una catastrofe umanitaria. Soprattutto era sembrata una rivoluzione senza eccessi e massacri, al punto che i diplomatici avevano già  coniato l’espressione “modello Yemen” per indicare una soluzione da esportare, magari anche in Siria. Poi Al Qaeda ha spazzato via le illusioni e riportato gli osservatori alla realtà . È bastato infiltrare
un suicida con una cintura imbottita di tritolo fra i soldati impegnati a sfilare in alta uniforme davanti alle autorità  statuali, nello scorso maggio, per spazzare il sogno di una ricostruzione pacificata. Quasi cento morti, oltre duecento feriti, e la firma immediata di Ansar al Sharia, l’ala locale di Al Qaeda nella penisola araba. La replica appena pochi giorni fa, con una strage di
cadetti sulla porta dell’accademia militare di Sana’a.
Per la rete del terrore il paese arabo più povero è sempre stato una roccaforte, ricca di braccia da impiegare, magari pescando fra i rifugiati somali in fuga dalla guerra civile. Proprio ad Aden Al Qaeda ha colpito la nave Usa “Cole” nell’ottobre del 2000, uccidendo 17 marinai e ferendone 39. Nel 2008 Al Qaeda nella penisola arabica ha colpito l’ambasciata Usa a Sana’a, uccidendo 10 guardie yemenite e alcuni civili.
Proprio nel deserto vicino a Sana’a, nel novembre del 2002, un aereo senza pilota guidato da agenti della Cia ha compiuto il primo omicidio mirato, con un missile lanciato contro Qaed Salim alHarethi. L’alto esponente di Al Qaeda, di cui lo stesso presidente Bush aveva chiesto l’uccisione, era considerato uno degli strateghi dell’attacco alla “Cole”. Ma l’esecuzione di Harethi è stata solo la prima tappa: ancora in queste giornate i “Reaper”, i “Mietitori” a guida remota, sorvegliano il paese in cerca di obiettivi di annichilire. Perché proprio in Yemen, raccontava nei mesi scorsi la stampa Usa, sono rifugiati gli “occidentali” di Al Qaeda, terroristi con legami in Europa e Usa, che Barack Obama ha già  dato ordine di uccidere.


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