Le guerre nascoste tra coltan e petrolio
Secondo l’ultimo, recentissimo Global Peace Index, l’«Indice globale della pace» stilato dall’Institute for Economics and Peace, l’Africa subsahariana sembrerebbe avviarsi verso un futuro di pace, giacché per la prima volta da quando questo osservatorio è stato lanciato nel 2007 ha perso il primato di regione «meno pacifica», che va invece al Medio Oriente e al Nord Africa. Il continente africano a sud del Sahara sarebbe dunque è «un po’ più pacifico» che in passato, dice il peaceIndex 2012. Ma poi, a scanso di equivoci, avverte che il primo paese al mondo in termini di violenza e conflittualità è la Somalia, seguito da Afghanistan, Sudan, Iraq e Repubblica Democratica del Congo. Eppure nel nostro paese alla parola guerra il pensiero va all’Afghanistan, la Libia o la Siria, e ciò che avviene in Africa raramente fa notizia, né suscita indignazione o chiama all’iniziativa. Forse perché una rilettura in chiave post-coloniale delle relazioni con l’Africa non è ancora sviluppata, o perché quei conflitti sottaciuti rifuggono una lettura tradizionale delle guerre.
Basta prendere l’esempio della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e in particolare la regione del Nord Kivu, che vive oggi il rischio di un’escalation militare. In questa regione si muovono varie milizie tra cui ilM23, un gruppo ribelle tutsi (già Congrès National pour la Defence du Peuple) che, secondo un accordo stipulato con il governo il 23 marzo 2009, avrebbe dovuto essere integrato nell’esercito regolare. Secondo molti osservatori la mancata attuazione dell’accordo, assieme alla decisione dei governo di Kinshasa di dar seguito al mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il leader del M23, generale Bosco Ntaganda, sarebbe causa del recente ammutinamento del generale e dei suoi fedeli.
Giovedi 13 luglio scorso per la prima volta alcuni elicotteri delle Nazioni Unite e della Rdc hanno attaccato posizioni ribelli nei villaggi di Rumangabo e Bukuna. Tre giorni prima la Missione Onu (la Monusco) aveva inviato nella zona truppe ghanesi e forze speciali di Guatemala, Egitto e Giordania, mentre a Goma veniva inviato un battaglione governativo addestrato dagli Stati Uniti, fino ad allora usato contro il Lord Resistance Army di Joseph Kony. E questo segue a un duro scambio di accuse tra Ruanda e Rdc, all’indomani della pubblicazione di un dossier confidenziale delle Nazioni Unite fatto trapelare alla stampa a giugno, secondo il quale il governo e i militari ruandesi avrebbero appoggiato l’M23 con armi e reclute. Denuncia poi amplificata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani Human Rights Watch e Global Witness, che puntano il dito su due elementi in particolare: il reclutamento per procura di bambini soldato e il legame tra conflitto e risorse naturali. A metà aprile Bosco ed i suoi (circa 600 miliziani) hanno iniziato una frenetica campagna di reclutamento, anche di minori. Secondo Global Witness, Ngaganda e altri membri del M23 si sarebbero arricchiti contrabbandando attraverso il Ruanda minerali quali il coltan e lo stagno.
La rivolta del M23 non è la sola fonte di destabilizzazione del paese. La città di Pinga è sotto il controllo di un’altra milizia, l’Apcls, mentre a ovest di Goma un gruppo ribelle Mai Mai del Sud Kivu, Raia Mutomboki, ha stretto alleanza con un altro gruppo, i Mai Mai Kifuafua. Da allora sarebbero morte almeno 111 persone. C’è poi la caccia a Joseph Kony, capo della Lord Resistance Army («esercito di resistenza del Signore»). Da aprile a giugno l’Lra avrebbe compiuto almeno 9 attacchi armati nel’est della Repubblica Centrafricana e ben 62 nella Rdc.
Da alcuni mesi una squadra mirata di forze speciali di Washington (la Special Forces A) sta operando insieme agli eserciti di Sud Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo alla caccia di Kony, suscitando qualche imbarazzo riguardo la presenza di soldati americani in Uganda, il cui presidente Museveni non è certamente esempio di integrità e democrazia o di rispetto dei diritti umani. Nonostante i ripetuti appelli e condanne da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti non si sono mai impegnati a contribuire alla soluzione dei conflitti in Rdc, perché sostengono il governo ruandese, vedendo nel presidente tutsi Paul Kagame un elemento di stabilità nella regione e poi perché sono impegnati con Africom (il comando africano dell’esercito Usa) nella lotta al terrorismo qaedista nel Sahel.
Ciò lascia spazio alla soluzione panafricana. Solo di recente, ai margini del vertice dell’Unione Africana di Addis Abeba, che ha eletto per la prima volta una donna ai suoi vertici, Nkosazana Dlamini Zuma, i presidenti della Rdc e del Ruanda si sono parlati trovando accordo sulla possibile soluzione. Gli stati membri della Conferenza Internazioale della Regione dei Grandi Laghi lavoreranno assieme alle Nazioni Unite ed all’Unione Africana per creare una forza internazionale con l’obiettivo di «sradicare il M23, il Fdlr e tutte le altre forze negative (sic!) nella regione est della Rdc».
Spostandosi verso est, lungo quello che viene definito «arco di instabilità » del continente africano, troviamo di nuovo il mix di tensioni etniche, interessi geopolitici «esterni», controllo ed utilizzo di risorse naturali strategiche, povertà indotta e commercio di armi. E’ il caso del Sudan e del neonato stato del Sud Sudan, nato con difficoltà e sempre sull’orlo di una nuova guerra. Molti sono stati infatti gli episodi di conflitto armato tra i due paesi nel corso dell’ultimo anno, per la difficoltà di definire i dettagli dell’accordo di pace, e in particolare lo status della città di Abyei, zona ricca di petrolio Sud Sudanese (che rappresentava i due terzi del petrolio prodotto in tutto il Sudan). Nei mesi scorsi, il governo di Khartoum decise di intercettare il petrolio sudsudanese in transito attraverso gli oleodotti posti sul suo territorio, di fatto privando il governo del Sud Sudan del 98% delle sue entrate e facendo precipitare il paese in una grave crisi. A questo si aggiunge l’emergenza umanitaria causata al afflusso di migliaia e migliaia di profughi che dal Sudan entrano nel Sud Sudan (almeno 170mila).
Ora il conflitto precipita. Nell’aprile di quest’anno il Sud Sudan ha ripreso il controllo dei giacimenti di petrolio di Heglig scatendando furiosi combattimenti. L’Unione Africana ha condannato la mossa come occupazione illegale, e l’Onu ha minacciato sanzioni se i due Sudan non riusciranno entro il 2 agosto ad accordarsi sui dossier che riguardano la frontiera ed il petrolio. Nei giorni passati sempre ad Addis Abeba i leader di Sudan e Sud Sudan si sono incontrati per riaprire un dialogo diretto dopo le violenze dei mesi scorsi, senza però giungere a un accordo che possa risolvere definitivamente le tensioni. Nel frattempo si è riacceso il conflitto intertribale in Darfur, dove 60 persone sono morte in scontri tra gruppi etnici del Darfur Orientale e del Sud Kordofan.
Infine c’è la Somalia, paese dilaniato dalla guerra tra le milizie di Al Shaabab e l’esercito del governo di transizione, guerra che ha coinvolto direttamente e indirettamente Eritrea ed Etiopia e ora vede sempre più impegnato il Kenya, e di riflesso gli Stati Uniti.
Insomma, dalla Nigeria, al Mali, al Niger, attraverso la Repubblica Democratica del Congo, la regione dei Grandi Laghi, fino al Sudan e al Corno d’Africa l’Africa continua a essere attraversata da conflitti irrisolti, legati l’uno all’altro in un intreccio mortale e che sfuggono alle analisi convenzionali. A fronte di un certo protagonismo dell’Unione Africana fa riscontro l’inadeguatezza della risposta europea. Nel corso dell’ultima riunione del maggio scorso dell’iniziativa UE-Africa per la prevenzione dei conflitti si discusse di Somalia, Sahel, Sudan, ma la Repubblica Democratica del Congo era assente dall’agenda. Qualche giorno dopo le armi hanno iniziato a sparare.
Sul fronte antiterrorismo-antipirateria invece il quadro cambia. A maggio di quest’anno per la prima volta le forze della task force anti-pirateria europea stazionate al largo della Somalia hanno bombardato l’entroterra contro presunte posizioni di pirati, di fatto marcando un’escalation nel conflitto. E nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri dell’Unione europea ha approvato l’invio di un contingente civile europeo di 50 unità per l’addestramento delle forze di sicurezza del Niger contro il terrorismo e la criminalità nella regione del Sahel. La missione, inizialmente prevista per due anni al costo di 87 milioni di euro, potrebbe essere estesa a Mauritania e Mali – paese in cui si sta prospettando un intervento militare internazionale contro l’insurrezione tuareg.
Attanagliata nella sua crisi, nei suoi Fiscal Compact ed affini, l’Unione Europea pare ingessata in un approccio alla gestione delle crisi essenzialmente «securitario». Anche in questo andrà misurata la costruzione di un’Europa politica, da contrapporre a quella dei mercati, che sia in grado di svolgere un ruolo responsabile all’altezza delle sfide globali.
Related Articles
Escalation. Accordo sul grano, la Russia si ritira con «decisione definitiva»
Dai paesi occidentali si è levato un coro di proteste unanime contro quello che è definito un ricatto. Per Zelensky «anche senza la Russia, bisogna fare di tutto per poter utilizzare il corridoio del Mar nero»
Quello sguardo fisso di un clown dell’orrore con i capelli rossi
Ecco il killer di Aurora: in aula i parenti delle vittime
Oggi in piazza, la Palestina torni patrimonio della sinistra
Oggi in 16 città italiane si manifesta contro il piano di annessione israeliano e per l’autodeterminazione del popolo palestinese. Nel silenzio complice dell’Europa, è tempo che si torni a coinvolgere chiunque creda nei diritti