Lavoro Volvera, il paese dei giovani dalle occasioni perdute

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Salteranno un giro. Al loro arrivo in stazione, il treno del lavoro non passa più: banchina deserta, sterpaglie tra i binari. Saranno giovani assistiti, ex precari, una generazione non arruolata, jobless, come dicono gli inglesi. Una generazione senza. Costretti a galleggiare tra una sovvenzione e l’aiuto di amici, genitori, parenti. I più fortunati a sperare nell’eredità . Con le mani in mano. Travolti da una catena. Qualche volta, per fortuna, salvati da un’imprevista rete di solidarietà . Perché le loro storie sono uno scandalo, gridano vendetta. Antonia, per esempio, si è salvata. Ma per miracolo. Trentenne, licenziata dal panificio industriale dove lavorava come operaia generica perché era rimasta a casa a curare la bambina malata di leucemia: quando il lavoro scarseggia sono lussi che nessuno si può permettere. A salvarla sono state le donne di Volvera, zona industriale di Torino, una della capitali della disoccupazione giovanile nell’ex ricco Nord. Hanno bloccato i carabinieri che stavano per sfrattarla.
Quante Antonia ci sono nell’hinterland di Torino? Tante perché, dicono le cifre, Torino è la provincia del Nord dove il tasso di disoccupazione giovanile è più alto, quasi il 30 per cento. In Italia, fra i 15 e i 24 anni, si è sfiorato ormai il record del 36,2 per cento, 635mila ragazzi a casa senza prospettive. «L’occupazione — spiega Giorgio Vernoni dell’Ufficio provinciale del lavoro di Torino — si sta ritirando dalle periferie verso la città ». Si ritira come i ghiacciai lasciando scoperte le valli e i paesi della seconda cintura: è al centro, al punto di incontro tra le crisi della Indesit e della Fiat, travolta dal gelo di commesse dell’indotto.
Oggi la figlia di Antonia è guarita e la colletta di solidarietà  le pagherà  l’affitto per un anno, in attesa che si trovi per lei la casa popolare. Ma in questo piccolo comune di settemila abitanti, il sindaco, Attilio Beltramino, allarga le braccia: «Sono contento per la signora Antonia, ma ho altri dodici casi di persone nelle sue condizioni.
E non ho un soldi per gli alloggi popolari».
La nipote di Antonia si chiama Valentina. Ha 30 anni, è sposata con Toni che è più vecchio di tre. Hanno due figli e tutti e due hanno perso il posto. Lei era lavapiatti nella cooperativa della mensa Fiat, lui operaio a Bruino, cinque chilometri da casa a produrre parabrezza fino a quando la fabbrica ha chiuso lasciando tutti per la strada: «Quel che è peggio — dice Valentina — è che non possiamo nemmeno fare molto affidamento sui grandi ». La madre di Valentina, Giovanna, ha lavorato in Fiat. Poi è entrata in cassa integrazione: «Meno di 800 euro al mese, come posso chiederle un soldo?». Il padre, Luciano, lavora in un’azienda così piccola che non ha nemmeno la possibilità  di andare in cassa integrazione: «Gli riducono l’orario per far quadrare i conti e non perdere i dipendenti», racconta Giovanna.
Toni, Antonia e Valentina sono i figli della crisi e dell’impossibilità  di superarla: «Sono i nati negli anni Ottanta e Novanta quelli che soffriranno di più non solo nei prossimi mesi ma nei prossimi anni», prevede l’assessore al lavoro della Provincia di Torino, Carlo Chiama. La ragione è drammaticamente semplice: «Abbiamo scelto tutti di affrontare la crisi salvaguardando il più possibile i posti di lavoro — dice Vernoni — ma questo ha avuto come conseguenza quella di alzare un muro per le generazioni più giovani». Perché la cassa integrazione blocca posti, tutela gli esistenti ma non ne crea di nuovi. E se il salvagente della cassa viene utilizzato a lungo, per molti anni, la porta girevole del lavoro si inceppa, intere generazioni rischiano di rimanere bloccate nel meccanismo. Questo spiega anche perché le storie di Toni, Antonia e Valentina si trovano nella provincia italiana con il massimo utilizzo degli ammortizzatori sociali, legati alla crisi della Fiat. Paradossalmente non è così nel Nordest: il crollo dell’economia ha distrutto più posti nelle piccole imprese del Veneto ma i dati sulla disoccupazione giovanile sono più incoraggianti.
Torino è la provincia italiana del Nord dove la disoccupazione complessiva è più alta, il 9,2 per cento. Quasi il doppio delle provincie del Veneto, un terzo in più di quelle lombarde. Manca il lavoro per i giovani, scarseggia per i meno giovani. Nasce così una zona depressa. Nel suo nuovo alloggio di Volvera, al primo piano di una casetta di via Scalenghe, sulla strada verso la zona del campo sportivo (perché anche Volvera, incredibilmente, ha un hinterland) Antonia sistema le sue cose estraendole dagli scatoloni dell’ultimo trasloco: «Mi hanno trovato questo alloggio a 350 euro al mese. Per fortuna la mia storia ha commosso molti e sono riuscita a trovare un lavoro a Candiolo, in una cooperativa di pulizie, cinque ore al giorno per 500 euro». Meglio che niente: si sommano ai 150 euro che manda il padre della piccola Melissa, ora guarita dalla leucemia. La bambina gioca nella sua camera lilla, l’unica arredata nella nuova casa. Gioca con il cuginetto, Matteo. La zia Giovanna aiuta a sistemare quel che esce dagli scatoloni.
È proprio Giovanna a raccontare la storia del triste ciclo dei vinti iniziato quasi trent’anni fa in Sicilia: «Siamo venuti via da Palermo nel 1986. Non c’era lavoro, non riuscivamo a mangiare. Siamo venuti fin qui al Nord perché pensavamo che così ci saremmo sistemati, avremmo avuto uno stipendio, sarebbero nati dei figli». E così, per un certo periodo, è stato. La zona di Volvera è l’area di prima industrializzazione dell’hinterland torinese. Vive sulle molte aziende dell’indotto ma anche su grandi gruppi come la
Indesit di None (ora in chiusura), la Skf di Airasca, la Fiat ricambi e la Fiat di Rivalta (oggi chiusa). Un buon posto per trovare lavoro. Negli anni Ottanta i contadini del Sud sono arrivati da queste parti per imparare un mestiere e per rispondere a un desiderio di riscatto sociale. Alla fine del turno affollavano le aule della scuola media del paese, seguivano i corsi delle 150 ore per poter prendere la licenzia media. Era un ascensore faticoso ma un ascensore che lentamente saliva la scala sociale.
Mai Giovanna e le sue sorelle avrebbero immaginato che un giorno i loro figli e i figli dei loro figli avrebbero dovuto ricominciare da zero come se la crisi di questi due anni avesse abbattuto di colpo un castello tirato su mattone per mattone a costo di grandi sacrifici. Mai avrebbero immaginato che Valentina, Antonia e Toni sarebbero rimasti un giorno fermi, senza possibilità  di salire sul treno del lavoro, con i figli piccoli da allevare. E allora Giovanna rivede l’incubo di quando era giovane lei e il mondo si chiamava Palermo, Sicilia: «Un anno fa, quando anche mia figlia Valentina e suo marito, quasi nello stesso periodo, sono rimasti senza lavoro, mi è sembrato di rivivere l’angoscia di allora, dei giorni senza soldi. Dopo un periodo tranquillo in cui pensavamo di avercela fatta, le figlie erano sposate e autonome nei soldi, ecco che questa crisi si è portata di nuovo via le nostre speranze. Ma per le nostre passi. Si è portata via, si sta portando via le speranze di questi ragazzi che credevano nel futuro, che avevano provato a costruirlo e ora devono ricominciare tutto da capo». Dice proprio così Giovanna, «tutto da capo». Per lei la crisi non sono gli impiegati di Lehman Brothers che escono con gli scatoloni in mano per le strade di Manhattan. È la povertà  e l’angoscia di Palermo che sale al Nord, che ti insegue come una maledizione, che scarica sui figli senza lavoro le paure dalle quali erano fuggiti i padri e le madri. Valentina, Antonia e Toni, sono lì, sulla banchina piena di erbacce ad aspettare un treno che forse non passerà  mai: «Hanno le stesse preoccupazioni che avevamo noi trent’anni fa. Quando abbiamo deciso di emigrare » .


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