L’Ardito del Popolo

by Editore | 22 Luglio 2012 12:58

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Nell’estate del 1922 ha trentatré anni. È alto, occhi cerulei, luminosi e magnetici, baffi “all’americana”. Veste quasi sempre di scuro, portamento elegante, modi garbati. Da ragazzo Guido Picelli non pensava alla rivoluzione, inseguiva sogni d’artista: recitava sui palcoscenici di provincia, girava l’Italia, a fianco di Ermete Zacconi partecipò a uno dei primi film del cinema muto italiano. Ora invece si ritrova capopopolo, uno poco incline ai dibattiti teorici ma che sa combattere con coraggio. Per il pane, il lavoro, la giustizia sociale. E che da tempo ha in testa una parola sola, “unità ”: «La salvezza del proletariato sta solamente nella valorizzazione delle sue forze effettive, nell’unità » scrive.
Quando arriva il momento di mettere in pratica le sue convinzioni Picelli è pronto. Mussolini ha appena inviato diecimila fascisti alla volta della sua città , Parma, con l’ordine di «metterla a ferro e fuoco». In poco tempo Picelli fa il miracolo. Coalizza forze da sempre antagoniste — socialisti, comunisti, anarchici, popolari e repubblicani — in un fronte unico, gli “Arditi del popolo”. La battaglia durerà  cinque giorni, dall’1 al 6 agosto, sarà  il più importante episodio di opposizione armata al fascismo prima della Resistenza, dimostrerà  che il fascismo si poteva fermare militarmente.
Picelli era un pacifista convinto. Allo scoppio della Grande guerra si arruola come volontario nella Croce Rossa, meritando due medaglie al valore. Ma è proprio l’aver assistito all’«inutile massacro del proletariato» che lo spinge a fare il corso ufficiali all’Accademia di Modena: vuole imparare a combattere per una società  più giusta. Tornato a Parma fonda “Le Guardie rosse”, una formazione di autodifesa proletaria. Nel 1920 viene imprigionato per aver impedito la partenza di un treno militare, ma nella primavera del 1921 è il popolo a tirarlo fuori di galera: con ventimila preferenze è eletto deputato per il Partito socialista (che poi abbandonerà ) e esce dal carcere. Sulla scheda di accettazione, alla voce “impieghi all’epoca dell’elezione”, scrive beffardo: «Carcerato».
La notte del primo agosto 1922 le forze squadriste
si sono raggruppate alla Stazione di Parma. I carabinieri e le guardie regie sono state ritirate dalle due caserme dell’Oltretorrente, una sorta di via libera ai fascisti. All’alba Picelli decide di mobilitare i suoi. Comandante della spedizione punitiva fascista, almeno diecimila uomini armati con mitragliatrici, bombe e fucili, è Italo Balbo. Picelli può contare su trecento “Arditi”, fucili modello 1891, moschetti, pistole. Ma dalla sua parte ha anche, come ricorderà  nei suoi scritti, «la popolazione operaia scesa per le strade, impetuosa come le acque di un fiume che straripi, con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi». Come un Che Guevara d’altri tempi e latitudini, mette in atto un piano di guerriglia urbana mai attuato prima. Fortifica l’Oltretorrente, e i rioni Naviglio e Saffi, con tre-quattro linee di barricate per ogni strada, intervallate da reticolati percorsi da corrente elettrica e da sbarramenti per le autoblindo protetti da mine. Ottavio Pastore, inviato per
L’Ordine Nuovo
di Gramsci, scrive: «Le donne avevano preparato l’acqua e l’olio bollente… perfino delle boccette di
vetriolo». I fascisti attaccano in forze, vengono
respinti. Nel rione Naviglio difeso dal vice di Picelli, l’anarchico Antonio Cieri, gli scontri più duri. Colpito da un cecchino cade il più giovane degli Arditi, la vedetta Gino Gazzola, quattordici anni. Anche i comunisti si sono schierati con gli Arditi, ignorando i diktat di Bordiga. E nell’Oltretorrente muore, in mano il suo fuciletto da caccia, Ulisse Corazza, consigliere comunale per il Partito Popolare. Costretti alla fuga, i fascisti non cantano più «
Quando in un cantone ci sta un certo Picelli, lo manderemo in Russia, a colpi di bastone
». Muti, impauriti. Hanno avuto 39 morti e 150 feriti. Sono allo sbando. «Se Picelli dovesse vincere — annotava Balbo nel suo diario — i sovversivi di tutta Italia rialzerebbero la testa. Sarebbe dimostrato che armando e organizzando le squadre rosse si neutralizza ogni offensiva fascista».
Il quinto giorno Picelli ha vinto e entra nella leggenda, ma capisce che non c’è tempo per festeggiare. Il nodo politico-militare dell’estate-autunno del 1922 è cruciale. La battaglia da difensiva deve
diventare offensiva. Dalle colonne del suo giornale,
L’Ardito del popolo,
lancia appelli all’unità  delle forze antifasciste: «Tutti in piedi come un sol uomo, pronti alla riscossa!». Gira il Nord per costituire “l’Esercito rosso”, ma il suo piano trova una forte opposizione nei partiti della sinistra. Dopo che Mussolini diventa capo del governo, Picelli scioglie gli Arditi per fondare “I soldati del popolo”, un’organizzazione segreta insurrezionale. Viene pedinato, spiato, arrestato. Nel 1923 i fascisti gli tendono un agguato a Parma. Sfugge anche a un complotto per eliminarlo. Il sicario pentito, Vincenzo Tonti, fa i nomi dei mandanti: il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci. E Italo Balbo. Nel 1924 viene rieletto deputato come indipendente nelle liste del Partito comunista: il Primo maggio entra in Parlamento. Lo fa a modo suo, issando sul pennone di Montecitorio una grande bandiera rossa.
Si avvicina sempre di più a Gramsci. Viaggia per organizzare la struttura insurrezionale clandestina del Partito comunista. In un documento segre-
to del PCd’I viene indicato, insieme a Fortichiari dell’ufficio «I» del Partito, come responsabile delle questioni militari. L’8 novembre del 1926 viene arrestato insieme a tutti i maggiori leader antifascisti. Dopo cinque anni di confino e di galera nel 1932 fugge in Francia, poi in Belgio, infine Mosca. Qui le sue speranze si scontrano con la dura realtà : viene emarginato, perseguitato, processato in una “cista” sulla base di false e futili accuse. L’Nkvd, la polizia segreta, indaga su di lui e solo grazie all’intervento del potente Dimitri Manuilski, che conosce Picelli come grande combattente antifascista, accantona la pratica. Scampato al gulag Picelli parte alla volta della Spagna per combattere i franchisti. Abbandona i comunisti italiani ed entra in contatto con il Poum, il Partito comunista antistalinista spagnolo. A Barcellona Andreu Nin, leader del Poum ed ex segretario di Trotsky, gli propone il comando di un battaglione. Ma alla fine Picelli accetta, pur consapevole dei rischi di una vendetta stalinista, un comando delle Brigate internazionali.
Il primo gennaio è al comando del Battaglione
Garibaldi. Attacca e conquista Mirabueno, la prima vittoria repubblicana sul Fronte di Madrid. La fine arriva pochi giorni dopo, il 5 gennaio 1937, sull’altura del San Cristobal. «La pallottola che l’ha fulminato, l’ha colpito alle spalle, all’altezza del cuore» scrive l’amico Braccialarghe che è andato a recuperare il corpo abbandonato sul posto. A Picelli vengono tributati tre funerali di Stato. A Madrid, Valencia e Barcellona. A quest’ultimo partecipano più di centomila persone. Sulla lapide, che due anni più tardi i franchisti faranno a pezzi insieme al corpo di Picelli, sta scritto: «All’eroe delle barricate di Parma». A un anno dalla sua morte alti ufficiali degli “Internazionali” propongono di conferire alla sua memoria “l’Ordine di Lenin”, la più alta onorificenza sovietica. Alcuni funzionari comunisti italiani, però, stilano un rapporto segreto al Comintern sui contatti tra Picelli e il Poum che di fatto blocca tutto. Non sarà  l’ultimo tentativo di far cadere nell’oblio la vita straordinaria del “Che” Guevara italiano.

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