L’altro Gattopardo che attraversa il fiume del ’900

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In un celebre libro piccolo e intenso, Aspetti del romanzo, E. M. Forster, l’autore di Passaggio in India, immaginò di chiudere nella stessa stanza un bel numero di scrittori degli ultimi duecento anni da mettere a confronto. Ne ricavò la tesi che se molte cose mutano, l’arte è invece immobile, perché immobile è la natura umana. Forster scriveva nel 1927, quando il capolavoro di Proust era uscito solo in parte e Joyce non circolava ancora in Inghilterra, anche se Forster tiene conto di ambedue. Non si parlava ancora di morte del romanzo, né di avanguardia e poco di psicoanalisi, ma sono certo che l’autore non avrebbe cambiato parere. Il vecchio libretto di Forster, che da noi uscì nel ’63 nella Biblioteca delle Silerchie con una nota anonima, ma di Giacomo Debenedetti, mi è tornato in mente dopo la lettura di un romanzo ponderoso, un caso letterario di cui nel tempo si erano perse le tracce. Parlo de
L’autobiografia di Giuliano di Sansevero di Andrea Giovene, riproposta ora da Elliot con una bella introduzione di Emanuele Trevi, già  uscita in edizione privata e poi presso Rizzoli tra il ’66 e il ’70 in cinque volumi.
«Il tono è carico di suggestioni, il numero degli echi è quanto mai alto», scrisse Carlo Bo, e il numero dei consensi, anche
stranieri (il romanzo fu tradotto in diverse lingue) è piuttosto consistente. In qualche modo Giovene (ecco perché mi è tornato in mente Forster) si mette da solo in una stanza con altri romanzieri, che cita ad un certo punto in modo esplicito. Sono Proust, Joyce e il Nievo delle Confessioni.
Dei primi due si libera con disinvoltura. Con Nievo è più cauto: «Spiritualmente, sentivo in lui un antenato letterario; ma egli era morto giovane ed erano passati più di cent’anni; e mi lusingava riprendere i suoi modi, due volte; dalle sue mani e dal tempo ». Trattandosi della autobiografia di un nobile, era inevitabile che il romanzo di Giovene incrociasse Il Gattopardo, almeno nella chiacchiera su possibili intrecci e somiglianze. E non per nulla: l’autore era duca di Girasole. Tuttavia la storia del giovane Sansevero, cadetto di una illustre famiglia di cui si avvia la lenta ma inesorabile decadenza, c’entra poco con il principe di Salina, anche perché ben presto la grande dimora napoletana, ricca delle collezioni d’arte paterne, verrà  abbandonata: prima per l’educazione nel severo collegio del Giglio che dura alcuni anni e poi per l’inizio di una vita errabonda (Trevi suggerisce picaresca) che contemplerà  numerose stazioni: Milano, Parigi, Modena, Roma, la Grecia, la Polonia, la Calabria, Napoli, la Sicilia. (Non le ho citate tutte). È ovviamente impossibile dar conto, anche solo per sommi capi, del numero di situazioni e avventure corse dal protagonista, (le peripezie dei vecchi romanzi popolari) che, diventato povero, conosce la filosofia spicciola dei barboni sulle panchine di Milano, l’onestà  delle puttane, le astuzie degli sfruttatori e delle tenutarie dei bordelli, fintamente travestiti da pensioni. Sansevero vuole incontrare e capire gli altri e attraverso l’esperienza anche se stesso. Sarà  una continua morte e rinascita. Diviso in cinque libri, il romanzo ha fasi alterne e i vari momenti potrebbero persino vivere in relativa autonomia, come le puntate di una serie che
ha gli stessi protagonisti principali, ma può veder mutare luoghi e situazioni. Giovene ha attraversato il Novecento e dunque il suo personaggio ne ripete le esperienze: diffidando un po’ di tutti. Dei nobili perché fatalmente in declino fino ad apparire letteralmente mummificati, dei borghesi perché, secondo lui, ancora impreparati, forse immaturi. Resta il popolino che è tutto e niente. La grande storia, con le sue guerre, il Regime fascista, il dopoguerra, scorre via trascinando gli individui come scorie. Succede anche a Sansevero, prima ufficiale in Grecia e poi prigioniero dei tedeschi. Ritrovata la libertà , Sansevero farà  diversi
mestieri: anche il giornalista. Ma forse il capitolo (il libro) più avvincente è quello che lo vede, tornato proprietario terriero grazie all’eredità  di uno zio, fermarsi in un paesino della costa calabrese, Licudi, (nome di fantasia) tagliato fuori dal mondo. Qui, felice del contatto con una popolazione primitiva, si fa costruire una casa con ventimila pietre. È uno dei rari momenti in cui l’autore riesce a creare un’attesa, secondo i riti del romanzo classico. E qui si invaghisce di Arrichetta, la giovanissima figlia di un capraio. Nel corso del romanzo sono diverse le storie d’amore e di varia intensità  (anche adulterine con, persino, un duello) ma si direbbe che Sansevero abbia una forte passione per le bambine, l’ultima delle quali, Acheropita, gli chiuderà  gli occhi. Sono passioni che restano caste. L’uomo d’altri tempi Giuliano di Sansevero compirà  i suoi giorni in un paesino quasi disabitato della Sicilia, dove un prete confessa ogni sera le cinque monache di clausura di un antico convento. La più giovane delle cinque è già  fuggita una volta dalla clausura: potrebbe essere l’inizio di un romanzo, invece è la fine. Una sera Sansevero si sostituisce al prete per ascoltare la voce penitente di una suora.
Il gran fiume del libro di Andrea Giovene, che può vantare una scrittura ornata, sapiente e ricca di cadenze ritmiche, è inevitabilmente anche un libro- biblioteca. L’autore è uomo dalle molte letture e spesso le lascia trapelare, mentre manovra un lessico ricercato. Forse troppo. Giovene, e questo secondo me è il suo difetto, fa sentire solo, e per mille pagine, la sua voce. Le voci degli altri sono indirette, raramente registrate dal vivo. È un libro scritto in una ideale clausura (un tema che ossessiona l’autore) nel ricordo di ciò che è stato e che fatalmente è andato in rovina. Come la casa delle ventimila pietre. Come il paese siciliano ormai quasi deserto dove vivono solo trenta persone tra cui un prete e un becchino.


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