L’ALPINISTA FELICE: LE AVVENTURE DI BENUZZI FUGGITO IN CIMA AL KENYA PER BEFFARE GLI INGLESI

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 «La più spiritosa evasione di prigionieri di guerra »: così la definì lo scrittore Dino Buzzati, appena, nel 1947 venne diffuso il libro autobiografico relativo all’impresa di cui stiamo per parlare. Il volume s’intitola Fuga sul Kenya,
ne è autore Felice Benuzzi. Italiano benché nato a Vienna nel 1910, laureato in diritto e più tardi diplomatico, era all’epoca un dilettante di alpinismo. Nel 1943, quando si svolge la fuga nominata nel titolo, Benuzzi giace da due anni in un campo keniota, prigioniero degli inglesi che lo hanno catturato in Abissinia. Riedito ora da Corbaccio dopo essere stato per troppo tempo dimenticato,
Fuga sul Kenya (pagg. 350, euro 19,90) è quanto di più elettrizzante possa sperare un lettore incline alle “avventure dal vero”. Senza affatto sminuirla, si può scorgere in quest’opera un prodotto alla Emilio Salgari, privo però di ingenui esotismi.
La scrittura è vivace. Domina, all’esordio, la descrizione del campo di prigionia con la convivenza che vi si instaura: «giovani e vecchi, pazzi e savi, terroni e polentoni». Malati immaginari accanto a solerti delinquenti. Una casistica comune ad ogni universo concentrazionario. L’intellettuale Benuzzi vi si sente trasformare da “homo sapiens” in “captivus vulgaris”, prigioniero senza aggettivi.
Un acronimo che le circostanze hanno portato in voga, è proprio POW (“Prisoner of War”). La tristezza di questa qualifica impregna le pagine di Benuzzi, nelle quali tuttavia si vede sgorgare l’antidoto. È ovvio, si chiama fuga. Ma le circostanze sembrano avverse. Il campo britannico 354 si trova a Nanyuki, nelle bassure nord-occidentali di quel Monte Kenya (alto 5000 metri) che diede il nome alla colonia. Il paese neutrale più vicino è il portoghese Mozambico, distante oltre mille chilometri. Impossibile come via d’evasione. E così, l’idea che si fa strada nella mente di Benuzzi è una fuga di pochi giorni: raggiungere la cima del Kenya, piantarvi una bandiera, lasciarvi un messaggio in una bottiglia e tornare al campo. Una provocazione. Benuzzi ritrova nella memoria una frase scritta da un prigioniero della Grande Guerra: «Al fronte si arrischia ma non si soffre. In prigionia si soffre ma non si arrischia». Perché allora non consentirsi un atto temerario?
È tra questi pensieri che una mattina il prigioniero intravede, attraverso la fitta nebbia, il Kenya, il Monte delle Meraviglie come ora gli sembra giusto ribattezzarlo. Un minuto più tardi, «nella gloria di un raggio di sole» eccone fra i ghiacciai «la vetta
splendente». Lui, che pure sa di alpinismo, non ha mai visto una cima così alta. Soggiogato, esclama: «La bellezza non è morta. Esiste, ed è a portata di mano». Ancora un dubbio: «Proprio a portata di mano?». Infine la chiosa: «Se osassi?…».
Un binocolo, trovato per caso, proietta qualche barlume sull’itinerario. C’è poi la snervante preparazione del progetto, la ricerca dei compagni d’avventura. Gli indumenti da indossare sono rimediati mediante baratti fra prigionieri. Gli attrezzi – corde, piccozze, ramponi, martelli, una chiave per aprire il cancello
del campo, l’asta della bandiera – si costruiscono a mano, dopo aver frugato in un ammasso di rifiuti. Viveri? Si ricuperano dalle già  magre razioni: caffè, riso e tante scatole di carne: è proprio quel “corned beef” così onnipresente nel campo da animare una canzone simil-italiana: «Se hai l’ameba o se hai il tif – mangi lo stesso il corned beef».
Rimanda e rimanda, si arriva al gennaio del ’43. Il 27 di quel mese varca di soppiatto i reticolati il gruppo, capeggiato da Benuzzi e formato da Giovanni Balletto, medico, ed Enzo Barsotti, un entusiasta di trentacinque anni (mentre gli altri non arrivano a venticinque), ignaro di alpinismo e per di più febbricitante. Hanno diviso l’itinerario in tre tappe: la foresta fittissima che confina con il campo di prigionia, il fiume Nanyuki che si suppone sgorghi dal Monte, e che quindi può orientare il cammino, e infine la montagna. Sono tante le peripezie da affrontare: il caldo di pianura, l’umidità  paludosa nei pressi del fiume, il gelo delle alture. E poi gli zaini monumentali, la vegetazione a tratti imperforabile, la tenda stretta, la fatica delle ore di guardia. I tre sanno di percorrere i terreni più ricchi di belve che esistano al mondo: leopardi, leoni, rinoceronti, elefanti. Tra questi, il peggiore – mistero per ogni lettore ignaro – è il rinoceronte: “bestia diurna”, non di quelle che, operando solo di notte, possono essere tenute lontane dalla luce d’un falò. «Stupido, poderoso, ficcanaso, dalla pessima vista, dall’ottimo odorato, è capace di caricarti con la velocità  d’un treno»: è l’aspro ritratto che ne fa Benuzzi. Che invece appare più equanime con l’elefante, «il più grande mammifero terrestre vivente ». Che sia la sua stessa natura di colosso a procuragli una certa condiscendenza? I fuggiaschi trovano qua e là , nella foresta, enormi piazzali spogli di vegetazione, e suppongono che ne siano stati artefici proprio gli elefanti, per comodità  e svago. «Qui, secondo me», decreta Enzo, giù di salute ma capace di imprevedibili gag, «di domenica le squadre d’elefanti fanno le loro partite di calcio». Quando mai s’è vista un’avventura avara di sorrisi? Il lettore, benché esausto per il racconto d’alta quota, si associa.
La scalata finale sarà  temeraria. Enzo, in preda a un collasso cardiaco, viene lasciato a riposo in uno scosceso campo-base. Tra scivolate terrificanti, Benuzzi e Balletto raggiungono la cima Lenana, una delle più alte del Monte, e vi issano il tricolore (appena sei giorni più tardi, per puro caso una “cordata” britannica recupererà  quel tricolore, che oggi si conserva in Italia come un curioso cimelio). Il ritorno al campo di prigionia riserverà  non minori intoppi dell’andata. Ma il compiacimento per l’impresa compiuta funzionerà  come un balsamo. È il 10 febbraio. L’avventura è durata due settimane.
Di ritorno al campo fra i loro amici POW, i tre vedranno ridotta da ventotto a sette giorni di cella la punizione prevista per i tentativi di fuga. Motivo dello sconto: la buona condotta osservata durante la detenzione.
Chi ha mai dubitato che gli inglesi, se vogliono, sanno usare il fair play?


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