La svalutazione competitiva non favorisce più l’export lo dimostra il “teorema iPhone”

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ROMA â€” Svalutare la propria moneta fa bene all’economia interna? Per gli euroscettici sì. Per Confindustria no. I primi sostengono che uscire dall’euro per Paesi come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia sarebbe il primo step per recuperare competitività  passando dalla svalutazione della divisa e guadagnando così terreno nelle esportazioni. Un discorso che poteva andar bene ai tempi di Ricardo o comunque prima dell’avvio dei processi di internazionalizzazione e di delocalizzazione produttiva. E soprattutto se si parla di materie prime o di prodotti finiti con una filiera tutta nazionale. Svalutando, in uno scenario senza una filiera produttiva internazionale, si otterrebbe un aumento dell’export e una riduzione delle importazioni di beni, che verrebbero prodotti internamente, senza aumento di costi se non quelli relativi alle materie prime. Uno scenario che oggi è a dir poco anacronistico e surreale. A dimostrarlo è un documento del centro studi di Confindustria che spiega come oggi i prodotti finiti siano per lo più frutto di un processo di assemblaggio di componenti provenienti da vari Paesi e come i vantaggi della moneta debole nell’export siano annullati dagli svantaggi nell’acquistare all’estero i singoli pezzi. Senza contare poi che anche il sistema bancario è in crisi, che il mercato è sempre meno reattivo ed elastico alle variazioni dei prezzi (l’export in particolare) e soprattutto che se più Paesi svalutassero la loro moneta il vantaggio si ridurrebbe ulteriormente.
Per spiegare questi meccanismi Confindustria ha preso in considerazione uno dei prodotti più famosi e diffusi al mondo, l’iPhone 4, concepito negli Stati Uniti ma esportato dalla Cina. Un’esportazione solo “apparente” perché di fatto qui avviene solo l’assemblaggio dello smartphone. Un passaggio che impatta sul costo del prodotto finito — 187, 5 dollari a unità  â€” solo per il 3,5 per cento, per un totale di 6,5 dollari. E gli altri 181 dollari come si giustificano? Con i costi dei componenti, che arrivano nelle fabbriche cinesi da Taiwan (per 20,7 dollari), Germania (16,1 dollari), Corea (80 dollari), dagli stessi Stati Uniti (22,9 dollari) e da altri Paesi (41,3 dollari). Non solo, gli stessi semilavorati che servono per produrre un iPhone sono composti da parti provenienti a loro volta da altri Paesi ancora. Si viene a creare così, per l’iPhone ma anche per gli altri beni industriali, una fitta rete di scambi internazionali, una mappa tracciata dalla convenienza a importare un bene o un servizio piuttosto che a realizzarlo in casa. Questo spiega perché
in Spagna, Portogallo, Italia e Grecia le importazioni di beni intermedi e di commodity impattano per il 60 per cento sulle importazioni totali. E perché negli ultimi 20 anni il commercio mondiale (in volume) è cresciuto a ritmi del 6 per cento annuo, mentre il Pil del 2,7 per cento. Il vantaggio derivante da
una svalutazione sarebbe inficiato dall’aumento del prezzo dei componenti importati. Come è successo in questi anni con la svalutazione della sterlina. I miglioramenti competitivi sono stati nettamente inferiori alle attese. Figuriamoci cosa succederebbe in Paesi come la Grecia, dove non c’è una
solida tradizione manifatturiera né industriale per poter produrre internamente i beni non più importati. Un’altra ipotesi sarebbe quella di compensare esportando servizi, come il turismo per esempio. E la Grecia, come la Spagna, in questo sono maestre. Con e senza euro.


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