“La proprietà  batta un colpo 33 anni fa non si tirò indietro per i modelli servono soldi”

by Editore | 19 Luglio 2012 7:23

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TORINO â€” Chi l’avrebbe mai detto: l’Italia dell’automobile che torna indietro nel tempo di oltre trent’anni, al 1979, con un mercato che allora era in crescita e oggi è in caduta libera e con la Fiat di Sergio Marchionne che sembra affidarsi a una cassa integrazione anticamera di qualcosa di peggio. Un problema in più in questa estate del 2012? «Il problema è che l’Italia è un paese schizofrenico, ripiegato sul passato e sulle pessime abitudini» risponde Carlo Callieri, testimone-protagonista del 1979 come capo del personale e dell’organizzazione del Settore Auto nell’anno in cui la Fiat di Romiti licenziò i «sessantuno» e affrontò il braccio di ferro col sindacato concluso poi con la marcia dei quarantamila del 1980. «Proprio così: in un’Europa, che di suo ha già  tanti problemi, l’Italia è l’anello debole. E questo si ripercuote pesantemente sull’industria dell’auto che in passato è stata l’industria principe di questo paese ».
In questa Europa però ci sono aziende come la Volkswagen che non soffrono.
«E’ vero, ma la Volkswagen è in Germania ed è anche il concentrato di un Paese che continua a lavorare, ha voglia di farlo e non si è mai tirato indietro di fronte ai sacrifici».
Ma sono paragonabili l’industria dell’auto del 1979, che in Italia voleva dire Fiat, e quella di oggi?
«Entro certi limiti direi di sì. Allora l’azienda era debolissima e prossima a essere nazionalizzata. Però la proprietà , ovvero la famiglia Agnelli, reagì delegando al management la soluzione del problema».
Anche oggi la famiglia Agnelli ha dato ampie deleghe a Marchionne. «Sì, ma intanto il fronte è più ampio. Il fatto che ci sia la Chrysler da un lato è positivo nel senso che Fiat può compensare in altri mercati ciò che perde in Italia e in Europa, dall’altro lato, però, è sempre più forte il rischio che il baricentro si sposti al di là  dell’Atlantico. E poi c’è dell’altro, non meno importante».
E cioè? «I soldi. Oggi c’è un management, che è anche bravo, ma è tenuto a stecchetto. E senza soldi non si fanno nuovi modelli. Per una nuova vettura ci vogliono da 500 milioni a un miliardo di euro. Questi soldi, management e tecnici non ce li hanno e nessuno glieli dà . L’operazione Chrysler è stata possibile con la tecnologia di Torino e i soldi di Obama per dire che non è una questione di capacità  ma di investimenti».
Qualcuno tira in ballo anche il sindacato. Ma il sindacato di oggi che cosa ha in comune con quello dello scontro del 1979-80?
«Assolutamente niente. Oggi c’è la Fiom che si oppone a Marchionne, ma non fa danni, non è in grado di bloccare la fabbrica come accadeva allora. La Fiom di Landini e di Airaudo, comportandosi secondo me stolidamente, diventa semmai un alibi. E sbaglia perché continua ad alzare la posta invece di andare a vedere il gioco».
La cassa integrazione, anche questa misura come trent’anni fa. Non è un po’ vecchia? «E che altro si può fare? Grazie a
Dio che c’è ancora e che il “nuovismo” in atto in materia di strumenti non ha distrutto anche questo ammortizzatore».
Nel 1979 in qualche modo si trovò una via d’uscita: pagata a caro prezzo dal sindacato e dai lavoratori, ma si trovò. Non crede che oggi la situazione sia molto più compromessa e che i rischi per i lavoratori siano maggiori che allora?
«Allora, sia pure sotto l’aspetto teorico, c’erano i nemici, era facile avvistarli, combattere e batterli. Noi allora lo abbiamo fatto e abbiamo vinto. Oggi mi domando chi siano i nemici».
E la risposta? «Non ce l’ho. Il sindacato ricorda i soldati giapponesi che continuavano a combattere nelle isole sperdute del Pacifico dopo la fine della guerra. La politica, non c’è. La cultura non mostra segni di grande cambiamento».
In questa sua analisi lei tiene fuori la proprietà  della Fiat, la famiglia Agnelli che allora era rappresentata dall’Avvocato e oggi da suo nipote John Elkann. Non crede che ci sia qualche responsabilità  o che siano state fatte delle scelte che, stringendo i cordoni della borsa, portino verso il disimpegno da Torino e dall’Italia?
«La proprietà  Fiat? Se c’è, è bene che batta un colpo. Nel 1979 lo ha battuto, ha preso la decisione di affidarsi al management e l’ha seguita, scegliendo di restare in un Paese non facile. Non dimentichiamo che erano gli anni di piombo ai quali l’azienda pagò un pesante tributo».
Batterà  un colpo anche adesso?
«Questo non lo so, per ora non mi pare».

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