La piazza nemica

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«Nell’assalto di un circolo giovanile organizzato da giovani di opposte tendenze politiche muniti di armi proprie e improprie, che si era risolto in aggressione a cose e persone con danni di notevole entità » (Cass., sez. 1, 1 aprile 2010). «Nella distruzione avvenuta, nel corso di una partita di calcio, con azione selvaggia e violenta, di alcune strutture di uno stadio, accompagnata dall’aggressione indiscriminata alle forze dell’ordine» (Cass., sez. 1, 8 marzo 2001). Quando non addirittura – è il caso dell’ordinanza del Tribunale di Napoli 22 ottobre 2008 – nel «ribaltamento di un furgone al fine di impedire il transito di autoveicoli delle forze di polizia». 
Prevedibile, dunque, e c’è, anzi, nella sentenza una inedita contestualizzazione dei fatti con il riconoscimento, per alcuni dei ricorrenti, dell’attenuante di «avere agito per suggestione di una folla in tumulto, nel corso di riunione o assembramento non vietato dalla legge o dall’Autorità », prevista dall’art. 62, n. 3 del codice penale del 1930, ma sostanzialmente ignorata dalla giurisprudenza repubblicana, nella quale la commissione dei fatti in manifestazioni di piazza è stata considerata, in genere, un’aggravante assai più che un’attenuante.
Inutile dire che prevedibile non significa condivisibile ché anzi si tratta, a mio avviso di un orientamento giurisprudenziale inadeguato e rispondente, anch’esso, a una evidente forzatura in chiave di tutela dell’ordine pubblico. Ciò per una pluralità  di ragioni. 
Anzitutto i termini «devastazione» e «saccheggio», usati contestualmente nell’art. 419 codice penale, rimandano a una situazione di carattere assolutamente eccezionale (nel linguaggio comune come nei testi letterari se ne parla con riferimento alle conseguenze di calamità  naturali o del passaggio di eserciti o truppe o ad eventi similari) e non è mai buona cosa la separazione del linguaggio tecnico giuridico da quello comune. 
In secondo luogo, il reato di devastazione è certamente un delitto contro l’ordine pubblico ma solo in virtù delle sue dimensioni e della sua entità  (ché la legge prevede espressamente, come ipotesi aggravata di danneggiamento, il caso di distruzione o rovina di cose nel corso di manifestazioni di piazza). Infine, che il reato in questione rimandi a una situazione in qualche misura eccezionale è dimostrato dall’entità  della pena prevista (con un minimo di 8 anni di reclusione), maggiore di quella che il codice indica per delitti come la rapina aggravata, l’estorsione o l’associazione di tipo mafioso, collocati dal comune sentire nella categoria dei reati più gravi. Sono segnali univoci che la distruzione o la rovina di cose, anche rilevanti, nel corso di manifestazioni non ha come unica qualificazione possibile la devastazione ma ben può rientrare nella fattispecie del danneggiamento (che del resto prevede, nella sua ipotesi aggravata, pene fino a 3 anni di carcere e dunque tutt’altro che irrilevanti). Perché dunque l’affermarsi, nei decenni, della giurisprudenza richiamata? La storia lo dimostra in modo quasi scolastico. 
Se si consultano le raccolte di giurisprudenza si vedrà  che il reato di devastazione non è stato praticamente mai ritenuto, fino agli anni Novanta del secolo scorso, con riferimento a fatti avvenuti nel corso di manifestazioni di piazza (di qualunque segno politico): non nei moti successivi all’attentato a Togliatti o nella sommossa di Genova del luglio 1960, e neppure nelle molte manifestazioni studentesche e operaie del ’68 e del ’69 o nella rivolta dei «boia chi molla» di Reggio Calabria del 1970, per non limitarsi che ad alcuni esempi. Il reato di devastazione è stato «riservato» essenzialmente a tre tipi di situazioni: gli atti di terrorismo (in particolare gli attentati ai tralicci della luce in Alto Adige), le rivolte in carcere degli anni ’70 e i disordini degli ultras del calcio a partire dagli anni ’80. Il delitto di devastazione, in altri termini, più che per contrastare eventi di eccezionale gravità  è stato utilizzato, nella storia repubblicana, per neutralizzare, con pene particolarmente elevate, tipi di autori particolarmente invisi alla società  (i nemici o gli ultimi). 
La circostanza che, a partire dalla metà  degli anni Novanta, l’uso della norma sia stato esteso ai fatti di piazza la dice lunga su almeno due aspetti: sulle categorie oggi considerate «nemiche della società » e meritevoli di un trattamento particolarmente rigoroso; e sul fatto che le soluzioni giudiziarie più repressive si sperimentano sempre sugli ultimi per poi estendersi in maniera indifferenziata. C’è davvero di che riflettere per la cultura giuridica. E non per essa soltanto.


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