La moda italiana batte la recessione tira l’export verso i Paesi emergenti

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MILANO â€” «Saranno ricchi, ma non sono mica tonti. E il vestito non basta che sia firmato, lo vogliono anche di qualità . Quando qualche anno fa uno dei nomi più noti della nostra maglieria ha aperto una serie di negozi a Pechino e Shanghai con un partner locale, ha chiuso in pochi mesi: il cachemire con la targhetta made in China non tira».
Nessuna sorpresa per gli addetti ai lavori del settore moda, made in Italy o come lo si chiami. Il fatto che la società  che fa capo alla moglie dell’emiro del Qatar abbia pagato 700 milioni per pagare Valentino, la griffe che solo una decina di anni fa si era ritrovata sull’orlo della crisi economica, non li stupisce per nulla. Perché tutto quello che ha a che fare con i vestiti, le cravatte ma anche scarpe, capi in pelle, accessori sia che si tratti del marchio conosciuto a livello planetario approdato in Borsa come Prada o Ferragamo sia la piccola maison del pret-a-porter rappresenta un settore dell’industria italiana che nelle ultime due stagioni ha saputo reggere bene alla crisi. Lo dicono i numeri elaborati dall’Istat. Il fatturato complessivo del settore moda pari a 83,1 miliardi a fine 2011 ha ormai recuperato i livelli pre-recessione (era a 85 miliardi nel 2008). Meglio del settore manifatturiero nel suo complesso, che a fine dell’anno scorso è tornato a 900 miliardi, a cui manca ancora un po’ strada per tornare ai 953 miliardi del 2008.
Il recupero di redditività  è passato soprattutto per la crescita all’estero. Per forza: il mercato interno di bassa qualità  è stato aggredito dai prodotti dei paesi emergenti (Cina su tutti), come dimostra il record delle importazioni nel 2011: 28,7 miliardi contro i 21,6 del 2005 e i 25,9 del 2010.
Ma allo stesso tempo i “benestanti” dei nuovi colossi emergenti hanno consentito il boom delle esportazioni: il desiderio di lusso e di prodotti firmati ha fatto il resto. E l’export è così risalito a 41,9 miliardi, a un passo dal record di sempre del 2005 (42,3 miliardi).
Questo non basterebbe a spiegare gli investimenti, la ristrutturazione dei costi, gli sforzi per internazionalizzarsi. Una riorganizzazione che è stata dolorosa sul piano occupazionale. Gli addetti del settore moda erano 605mila nel 2005: da allora sono soltanto scesi, fino ad arrivare a 501mila alla fine dell’anno scorso. Un dato che è superiore, in proporzione, alla perdita di posti di lavoro complessiva delle imprese manifatturiere (quasi 4,5 milioni di addetti nel 2008, per arrivare ai 4 milioni dell’anno scorso).
Ma è stato l’export a salvaguardare la qualità , con griffe che ormai coprono il 90% del fatturato grazie ai mercati internazionali. Anche in questo caso, i numeri danno l’idea. Il settore moda copre il 9% del fatturato complessivo del settore manifatturiero nel nostra paese, dato che rappresenta l’11% delle esportazioni complessive dell’industria italiana. Ma il dato più eclatante è un altro: rispetto al fatturato totale, la voce esportazioni copre il 50% del totale. Contro la media del 40% della manifattura nel suo complesso.
Non è un caso allora, che Sistema Moda Italia (Smi), l’associazione imprenditoriale, sia l’unica tra quelle legate a Confindustria ad avere una sede a Shanghai (con Intesa Sanpaolo) per assistere le imprese a espandersi nel mercati cinese. La targhetta made in Italy, per ora, è molto richiesta.


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