La memoria collettiva della guerra
Sono morti tutti, i veterani della Prima Guerra Mondiale. L’ultimo, Claude Choules, membro della Marina Britannica, si è spento poco tempo fa a 110 anni. Così non è rimasto più nessuno a festeggiare il prossimo centenario del conflitto, un conflitto che è stato giudicato «il più importante evento della storia europea dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente».
La definizione di deve a Peter Englund, corrispondente di guerra, storico, romanziere, segretario dell’Accademia di Svezia, di cui esce adesso La bellezza e l’orrore. La Grande Guerra narrata in diciannove destini (traduzione di Katia De Marco e Laura Cangemi, Einaudi, pagg. 600, euro 24, con un’ampia scelta di fotografie in bianco e nero). L’autore ha parlato dell’opera come di un lavoro storico che, a un certo punto, ha subito uno sviluppo imprevisto. Si tratta infatti delle vite di diciannove individui, tutti esistiti e per lo più sconosciuti, con l’eccezione del grande scrittore austriaco Robert Musil (dotato di un’innata capacità di imboscarsi) e del giornalista italiano Paolo Monelli (ufficiale degli alpini e poi fondatore del Premio Bagutta). Il resto della compagnia annovera, fra gli altri, una coraggiosa autista australiana al seguito dell’esercito serbo, un funzionario francese che non vedrà mai il campo di battaglia, una studentessa tedesca, un eroe inglese, un avventuriero sudamericano arruolato nell’esercito turco e testimone del genocidio armeno, un tenente degli ussari ungherese, un ufficiale russo e un marinaio della flotta prussiana.
Ma il punto fondamentale è che la fonte del racconto è costituita da diari, lettere, memorie e articoli lasciati da tali persone/ personaggi: «Il libro non contiene nulla di inventato ma si basa su documenti di vario genere ».
Il titolo originale suona La bellezza e il dolore del conflitto, ma assai più significativo è il cambiamento del sottotitolo svedese, che recita: “La Prima Guerra Mondiale in 212 capitoletti”. L’editore italiano ha cioè preferito concentrarsi sul gioco caleidoscopico creato dalla pluralità dei protagonisti; resta comunque il fatto che a Englund stava a cuore soprattutto l’aspetto compositivo del volume. I 212 capitoletti (che in un’intervista risultano essere 227) non superano le due pagine, e trattano sempre di una o due figure. Disposti in ordine cronologico, dall’agosto 1914 al novembre 1918, essi hanno lo scopo precipuo di mostrare «che cosa una persona fece, vide o provò durante una singola giornata». L’effetto finale dovrebbe corrispondere a una sorta di diario collettivo, o a qualcosa come 19 (ma anchemqui troviamo una sfasatura, perché altrove Englund scrive 20) biografie intrecciate tra loro. Che la ventesima alluda a quella di Adolf Hitler, di cui si riporta una pagina a mo’ di commiato?
Alla varietà dei tipi umani, si è detto, fa eco quella dei paesaggi in cui si svolgono le loro più o meno tragiche esperienze,
da Verdun a Ypres (dove fanno la loro prima apparizione i carri armati), dalla Russia ai Dardanelli, dall’Altopiano di Asiago all’Atlantico (che vede invece la comparsa dei micidiali sottomarini tedeschi).
Ma tutto questo, per Englund, ha un unico movente, ossia il tentativo di catturare la sconcertante molteplicità della guerra attraverso le reazioni individua-li: «In poche parole questo è un pezzo di antistoria, in quanto ho cercato di ricondurre un evento epocale alle sue componenti minime, atomiche: il singolo essere umano e il suo vissuto».
Venti milioni di morti, altrettanti feriti, e quasi quaranta paesi coinvolti: «Sono in molti in questi giorni a prepararsi a morire e a uccidere per un paese con il quale sentono di avere soltanto un’affinità superficiale: alsaziani e polacchi, ruteni e casciubi, sloveni e finnici, sudtirolesi e sassoni di Transilvania, balti e bosniaci, cechi e irlandesi». Fu una catastrofe senza precedenti, che vide la fine della cavalleria e il trionfo della tecnologia, con un dispiego di mezzi mai visto prima: aerei, dirigibili, treni, camion, telefoni, gas velenosi… Era il grande laboratorio del Moderno, la fucina dei futuri regimi totalitari, le cui implicazioni letterarie sono state studiate dai saggi di Alberto Casadei e Andrea Cortellessa, mentre Nicola Bultrini, in un libro-inchiesta del 2008 (I sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra), ha riunito le ultime testimonianze dei nostri reduci.
Tuttavia La bellezza e l’orrore rappresenta anche un originale contributo al dibattito sul rapporto fra finzione e realtà .
Costruito come un mosaico di citazioni, una specie di ipercollage o di cut-up, il testo scorre via con un’estrema naturalezza, integrato da note a pie’ di pagina da un lato fitte di dettagli tecnici spesso stupefacenti, dall’altro ricche di aneddoti (uno per tutti: il commercio del catarro dei tubercolosi per contrarre la malattia ed evitare la chiamata alle armi). Così, malgrado la complessità del suo progetto, questa ingegnosa macchina dà forma a una narrazione trascinante proprio grazie al ventaglio dei punti di vista e al contrasto fra le diverse deposizioni dei personaggi. Difficile sottrarsi alla corrente di un romanzo dai registri tanto vari. Basti evocare la pagina datata 18 aprile 1918: «Racconta che un mattino ha visto una massaia continuare a battere tranquillamente i tappeti anche durante i bombardamenti, limitandosi a battere più forte per coprire l’eco delle esplosioni».
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