La «nuova Honda» è un assemblaggio di pezzi low cost, che taglia i posti

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I vertici nipponici l’hanno chiamata «The new Honda» che, tradotto, significa produzioni ridotte e delocalizzate; che, tradotto, vuol dire metà  degli operai fuori; che, tradotto, racconta a pennellate amare il declino dell’area della Val di Sangro, fiore all’occhiello dell’Abruzzo industriale e polo metalmeccanico più grande del centro-sud. La «new Honda» è il piano di riordino messo sul tavolo nelle scorse ore. La new Honda» è un collage di tagli e tagli: 303 esuberi su 645 occupati. 
La Honda Italia, ad Atessa, dove insiste il primo e unico stabilimento in Europa della multinazionale giapponese, vuole licenziare metà  dei dipendenti. E poi c’è l’indotto, con 1.200 lavoratori e circa 50 piccole, talvolta piccolissime, imprese che verrebbero fatte a brandelli. Perché? «Perché le moto non si vendono più…»: questa la ragione. Nient’altro da aggiungere. E poi, fuori, all’estero, la manodopera costa meno. Tutto costa meno… La solita tiritera. L’annuncio del drastico ridimensionamento piove su Fiom, Fim e Uilm durante una temuta riunione presso Confindustria. Temuta perché di sforbiciate al personale c’era sentore. E, da parte dei sindacati, era stato, pur se con indugio, ripetutamente lanciato l’allarme ad una politica sempre sorda, stantia ed imbranata, che, naturalmente, non si è mai mossa. 
Eppure le cifre già  parlavano: si è passati dalle 180 mila le moto realizzate nel 2008 alle 65 mila attuali. Un tracollo senza precedenti, soprattutto per le due ruote, per l’SH 125 e 250. Segno meno anche per la produzione dei motori power usati per i tosaerba: da 325 mila pezzi a circa 300 mila. Eppure da più parti si vociferava: «Ma no, la Honda non può smantellare… La Honda no…». Invece la «ristrutturazione» ci sarà  e sarà  aspra. 
Ieri sciopero e assemblea in contrada Saletti, dove si trova la fabbrica, che qui si è insediata nel 1971 e che, da queste parti, per questa realtà , rappresenta anche un pezzo di buona storia, 40 anni portati bene. Quarant’anni da tutelare: «Dobbiamo provarci… E cominceremo subito, il 6 luglio, al tavolo delle trattative…», dice Donatella Colantonio, Rsu Fim. «Sì, lo sconcerto c’è – prosegue. – Sapevamo che il mercato era al collasso ma non credevamo di arrivare a questo punto…». «La Honda – afferma Domenico Bologna, segretario provinciale Fim Cisl Chieti – è un bene del territorio e va salvata. Dobbiamo rimboccarci le maniche e sventare la chiusura. Non deve assolutamente tornare ad essere quella degli anni Settanta, quando era soltanto un magazzino. No neppure ad un’azienda di semplice assemblaggio di pezzi». 
Nessun investimento, il trend negativo delle vendite che soltanto negli ultimi mesi ha portato a depennare il 20% della produzione e poi la decisione di spostarsi in parte in Asia e negli Stati Uniti. «Sono gli elementi – spiega Marco Di Rocco, segretario provinciale Fiom Cgil – che giustificherebbero, secondo la dirigenza, il dimezzamento della manodopera. All’improvviso una marea di esuberi e anche la voglia di rifornirsi altrove, low cost. In tal modo andremmo ad azzerare anche l’indotto. Non ce lo possiamo permettere. La politica adesso si svegli, per favore e faccia il proprio mestiere». «Che significa? Significa crisi nera su tutta la provincia – dichiara Nicola Manzi, segretario Uilm Chieti – Significa, per la Honda, un sussulto violento e il rischio cancellazione». Angelo D’Amario, Rsu Fiom, evidenzia: «Penso che non sia nell’interesse di alcuno arrivare all’aut aut, puntiamo ad un accordo». Francesco Flamminio, un quarantenne che rappresenta l’età  media dei dipendenti: «C’è necessità  di aprire un tavolo al ministero dello sviluppo economico al quale dovranno sedersi tutti, dalle istituzioni al management della casa madre. Abbiamo bisogno di non farci rubare il futuro». 
«Dobbiamo cercare di cambiare insieme il piano industriale – afferma Nicola Di Matteo, segretario Fiom Abruzzo – produrre un motore power negli Usa costa 14 euro in meno a pezzo, così ci hanno riferito. Con i fondi Fas della Regione Abruzzo dobbiamo cercare di colmare questa differenza e trattenere il lavoro qui».


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