La finta guerra di Usa e Ue alla troika delle pagelle e ora torna la finanza tossica
“Le agenzie di rating furono tra i carburanti della crisi nel 2008 e possiamo chiederci se non facciano lo stesso oggi”. Sono parole di Christian Noyer, governatore della Banca di Francia. Non solo nell’eurozona stremata dai declassamenti sovrani, ma anche negli Stati Uniti le Tre Signore dei rating sono sotto tiro. Le hanno definite “il più strano ibrido del capitalismo finanziario”: sono società private, svolgono la loro attività a scopo di profitto, ma di fatto occupano un ruolo di regolatrici dei mercati. Questo accade perché vaste categorie di investitori istituzionali — tanto più se tenuti a comportamenti prudenti, come i fondi pensione — devono per legge o per statuto acquistare solo titoli che abbiano un rating o “voto” elevato a tutela del loro valore e della loro solvibilità . Conflitti d’interessi strutturali; errori macroscopici; sospetti di comportamenti illeciti: tutto ciò ha spinto sia le autorità americane che quelle europee a promettere cambiamenti. In due direzioni. Da una parte un controllo più stringente sulle agenzie di rating. Dall’altra una riduzione degli ambiti in cui si esercita il loro potere (immenso). Sulle agenzie di rating si è svolta una battaglia spesso nascosta, di cui i cittadini sono all’oscuro, nonostante che dall’esito di questa battaglia possa dipendere la stabilità dei loro risparmi, e perfino il “segno” sociale della politica economica di tanti governi. Ma i propositi riformatori sono rimasti spesso sulla carta. Intanto torna a imperversare la “finanza tossica”, i derivati fanno nuovi danni, come se il 2008 fosse accaduto invano.
Conflitti d’interessi / Poco rigore con i privati che pagano troppo quando nel mirino è lo Stato
Un secolo di crac, scandali, insolvenze, ha reso obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Il “ triopolio Usa” composto da Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch (che insieme producono il 95% dei rating mondiali) dà i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Incollando sigle fatte di combinazioni di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è cruciale. Tutti gli investitori del mondo si fanno guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Nel settore privato, le agenzie non lavorano gratis, il rating se lo fanno remunerare dalle stesse società emittenti di titoli. Un rating costa dai 1.500 dollari ai 2,5 milioni, a seconda delle dimensioni del soggetto “votato”. Invece per i bond di molti Stati sovrani il rating viene emesso gratis. Di qui il sospetto che le agenzie siano state lassiste con certe aziende private, ultra-rigoriste con alcuni Stati. Fino al 2006 regalavano la “tripla A” con generosità . Il voto di massima solvibilità ce l’avevano perfino certi prodotti “strutturati”, i famigerati titoli della “finanza tossica”, con dentro crediti legati ai mutui subprime che si sarebbero rivelati inesigibili.
Scandali e inchieste / In corso class action contro le due big per aver alimentato il disastro mutui
Tra gli incidenti più misteriosi – su cui indaga la magistratura di Parigi – c’è il “falso downgrading” della Francia, una notizia errata, trapelata il 10 novembre 2011 dagli uffici della S&P, suscitando in pochi minuti oscillazioni isteriche sui mercati. Chi ha guadagnato dalle agitazioni speculative che seguirono quell’infortunio – o presunto tale – della più grande agenzia di rating mondiale? Perché S&P non ha dovuto pagare risarcimenti? Sotto l’Amministrazione Obama il dipartimento di Giustizia ha aperto un’indagine su S&P, per far luce sui “rating impropri” assegnati ai bond legati a mutui immobiliari. I procuratori federali formulano accuse pesanti: certi analisti di S&P volevano assegnare dei voti bassi ad alcuni titoli della finanza tossica, ma i loro pareri furono ignorati per l’intervento di dirigenti superiori “nell’interesse del business”. Nel settembre 2011 la Sec pubblicava un rapporto duro con le agenzie di rating. Ecco alcune delle rivelazioni. In una delle maggiori agenzie, a dare le pagelle sulla solvibilità di una società era un analista che era azionista della società stessa. Un’altra agenzia comunicò in anteprima ad “amici intimi” un imminente cambio dei suoi voti:
insider trading. Una terza è stata colta in fallo perché i suoi rating venivano assegnati senza seguire le regole che lei stessa si era data. E’ in corso una class-action contro S&P e Moody’s, promossa per ottenere risarcimenti agli investitori nei mutui subprime.
Le nuove regole americane / Un’authority fantasma e senza soldi per l’ostruzionismo dei repubblicani
Nella grande riforma dei mercati promossa da Obama, e approvata dal Congresso con il nome di legge Dodd-Frank (i due parlamentari firmatari), c’è di che ridimensionare e disciplinare il potere delle agenzie. Almeno in teoria. La Sec, che oltre a vigilare sulla Borsa è diventata l’authority di controllo sulle agenzie, ha deciso di ridurre il ricorso ai rating in molti dei suoi regolamenti. Ha promesso di elaborare dei metodi sostitutivi per chi voglia investire in modo trasparente sfuggendo alla “dittatura dei rating”. La Dodd-Frank allarga il campo della responsabilità civile, per facilitare gli investitori che vogliano rivalersi sulle agenzie. Infine è stato creato l’apposito Office of Credit Ratings, destinato a diventare il “cane da guardia” che starà alle calcagna delle Signore dei rating. Il problema è che questa nuova authority resta una fantasma. Mancano i fondi per farla funzionare. Guarda caso, il suo finanziamento è bloccato al Congresso dall’ostruzionismo del partito repubblicano. Il metodo è classico, lo hanno seguito tutte le lobby della finanza: oltre a battersi apertamente contro la riforma Obama, hanno operato “trasversalmente” per sospendere le nomine e negare le risorse finanziarie alle authority già esistenti o a quelle di nuova creazione. «E’ la rivincita delle agenzie di rating», titolava il New York Times nell’agosto del 2011. Poco è mutato da allora.
Il ritorno dei derivati / Nessun limite al loro strapotere solo l’India li ha messi al bando
Come nella “Notte dei morti viventi”: stanno rinascendo gli zombi. E’ di ieri la nuova rivelazione della JP Morgan Chase, la più grande banca americana e mondiale: è salito a 5,8 miliardi di dollari il “buco” creato nel suo bilancio dalle speculazioni sui derivati. Tutta colpa dell’ufficio di Londra a cui la JP Morgan Chase aveva dato carta bianca per tornare ad assumere rischi immensi nella finanza derivata. Poche e confuse, le spiegazioni fornite dal chief executive Jamie Dimon, che continua a parlare genericamente di un «trading fatto male». Nonostante i danni fatti nel 2008 dai credit default swaps — titoli derivati che si presentano come polizze assicurative contro il default di questo o quel debitore, privato o sovrano — gli stessi strumenti continuano ad essere utilizzati. Difficile non cogliere l’aspetto schizoide o bipolare della finanza: da una parte gli investitori sono severi, talvolta spietati con Stati che non appaiono degni di fiducia; d’altra parte colossi bancari e hedge fund continuano a investire in titoli ad altissimo rischio come i derivati. L’India è l’unica grande nazione che ha messo al bando la finanza derivata dalla sua Borsa. La Tobin Tax continuamente riproposta da alcuni governi europei potrebbe essere il “granello di sabbia” che inceppa gli ingranaggi della finanza ad alto rischio? Più probabilmente si sposterebbe altrove, visto che la più grande piazza finanziaria europea (Londra) si è già chiamata fuori.
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Come nella “Notte dei morti viventi”: stanno rinascendo gli zombi. E’ di ieri la nuova rivelazione della JP Morgan Chase, la più grande banca americana e mondiale: è salito a 5,8 miliardi di dollari il “buco” creato nel suo bilancio dalle speculazioni sui derivati. Tutta colpa dell’ufficio di Londra a cui la JP Morgan Chase aveva dato carta bianca per tornare ad assumere rischi immensi nella finanza derivata. Poche e confuse, le spiegazioni fornite dal chief executive Jamie Dimon, che continua a parlare genericamente di un «trading fatto male». Nonostante i danni fatti nel 2008 dai credit default swaps — titoli derivati che si presentano come polizze assicurative contro il default di questo o quel debitore, privato o sovrano — gli stessi strumenti continuano ad essere utilizzati. Difficile non cogliere l’aspetto schizoide o bipolare della finanza: da una parte gli investitori sono severi, talvolta spietati con Stati che non appaiono degni di fiducia; d’altra parte colossi bancari e hedge fund continuano a investire in titoli ad altissimo rischio come i derivati. L’India è l’unica grande nazione che ha messo al bando la finanza derivata dalla sua Borsa. La Tobin Tax continuamente riproposta da alcuni governi europei potrebbe essere il “granello di sabbia” che inceppa gli ingranaggi della finanza ad alto rischio? Più probabilmente si sposterebbe altrove, visto che la più grande piazza finanziaria europea (Londra) si è già chiamata fuori.
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