La fine di un sogno in forma di eccidio

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Da lungo tempo, fin dal romanzo La briganta, Maria Rosa Cutrufelli ha concentrato progressivamente il proprio sguardo su modalità  diverse di narrazione della storia e del suo svolgersi a spirale, abbracciando in modo più o meno consapevole vite di donne e di uomini, che però, grazie alle scelte di stile di Cutrufelli, ne divengono invece protagonisti. Non in modo eroico, se di eroismo nelle forme tradizionali si vuole parlare: concentrate invece le donne dei suoi romanzi, e anche gli uomini, su possibilità  non facili certo, e anche duramente conquistate, ma sempre possibilità  di stare al mondo mantenendo fedeltà  a sé e al proprio progetto di vita non solo individuale ma anche collettivo. 
Dopo il bellissimo romanzo dedicato a Olympia de Gouges, La donna che visse per un sogno, del 2004, dopo aver riattraversato magistralmente il Novecento in D’amore e d’odio, del 2008, che grazie alle sue sette voci narranti femminili diviene finalmente un secolo altro e diverso da quello che la storiografia ufficiale ci consegna, l’affrontare un episodio così decisivo e anche così rimosso come l’eccidio di Portella della Ginestra, avvenuto nel 1947, ne I bambini della Ginestra, pubblicato da Frassinelli – casa editrice cui la scrittrice affida con continuità  i suoi romanzi -, ha il significato voluto e meditato di scegliere date che nel corso del romanzo si delineano progressivamente come le date da cui ripartire per ripensare l’Italia (pp. 275, euro 18,50). E superare il trauma, nel romanzo quello dell’eccidio vissuto in modo diverso dai due protagonisti, Enza e Lillo, l’uno presente alla carneficina che la mafia allora fece mitragliando in modo scientifico una folla inerme e tra i morti vi è suo padre, l’altra poco distante ma comunque testimone oculare. 
Una partita ai margini
Non solo di Portella della Ginestra si sta parlando nel romanzo, ma più ampiamente del trauma della fine del sogno di un’Italia altra e diversa, di una possibilità  di giustizia sociale che è sembrata a portata di mano negli anni Settanta e che ora pare sogno impossibile: non è un caso che il romanzo parta proprio da lì, dagli anni Settanta del Novecento, per fare interloquire i due protagonisti, che si scrivono per raccontarsi che cosa ha impedito ad entrambi di vivere compiutamente la propria vita, dominata, invece, da un movimento convulsivo che ha i caratteri dell’andare, andare via dalla propria terra così amara, da un sistema giudiziario così iniquo, da un parlamento che non riesce a svolgere il proprio legittimo compito di indagine di fronte alla mafia e alla sua collusione con la politica. E non riuscire a tornare: alla Sicilia, rispetto cui il movimento come per tutte le isole è quello di andare via, magari poi per tornare, ma come per tutte le isole il movimento del ritorno non è mai solo geografico ma è prima ancora interiore, verso il luogo delle origini. Così lo ha definito Deleuze in un bellissimo saggio degli anni Cinquanta del Novecento dedicato alle isole, così si manifesta nel romanzo di Cutrufelli, che sceglie un episodio importante sì, ma apparentemente decentrato rispetto i luoghi del potere in Italia, Roma, Milano, dove nello stesso momento accadevano fatti altrettanto importanti e minacciosi per gli anni a venire.
Ma la scelta di Cutrufelli è significativa e importante: perché è nei lembi frastagliati dei margini che si giocano partite decisive, che siano quelle di Portella della Ginestra, dove la mafia mandò con chiarezza un messaggio le cui conseguenze sono ancora tutte in atto, oppure le vite individuali di antichi bambini che hanno creduto in una «società  dell’avvenire, il mondo dove ognuno avrà  il suo pane… E oltre al pane, il sole, l’aria, la libertà  e l’amore!» Sono le parole che concludono il discorso che il medico socialista Nicola Barbato pronuncia all’uscita dal carcere sul sasso che poi prenderà  il suo nome a Portella della Ginestra, nel 1896, dopo essere stato processato per la partecipazione ai Fasci siciliani, e che riecheggiano nel romanzo come parole di cui si percepisce a stento l’eco, sopraffatti i due protagonisti da quanto loro accaduto a cinquanta e più anni di distanza, sopraffatti noi oggi ad altri cinquanta e più anni dall’eccidio di Portella. 
Si tratta di un’eco debole ma tenace, e non è una leggenda, ma storia vera, scrive Cutrufelli, così come è vero il dialogo tra i due personaggi in forma di lettera, in cui ognuno racconta all’altro e all’altra e così facendo racconta anche a se stesso quanto fino a quel momento aveva cercato di riporre nei cassetti più chiusi della propria memoria. Ed è particolare e bella la scelta del dialogo in forma epistolare, che permette il dispiegarsi articolato e anche interrogato delle differenti vite e vissuti di entrambi, e le ragioni anche di questo, mai tutte da una sola parte: l’astrattezza di lui, che nel divenire studioso cerca le ragioni di quanto avvenuto, e la concretezza di lei, che decide di rimane nella propria terra divenendo farmacista, immagine simbolica del bisogno di prendersi cura della ferita inferta al corpo sociale e anche a sé. Accanto all’autenticità  del processo di inveramento storico e individuale, vi è l’inverità  della cosa pubblica, come commenta amaramente lo zio paterno di Lillo alla notizia della riduzione di pena ai picciotti, ormai pochi, nell’appello del processo che tratta quanto avvenuto come una sorta di farwest siciliano: l’inverità  non è il contrario della verità , quanto piuttosto ciò che si ottiene distorcendo la verità  dal suo interno e il pensiero va, senza neanche che si riesca a trattenerlo, a Genova, alla Tav, a tutta l’inverità  in cui siamo immersi. Ma se è possibile andare via, è ancor più necessario tornare e buttarsi dentro la vertigine del futuro, su cui si conclude il romanzo, lasciando a noi che leggiamo il desiderio di ripartire, ancora una volta, dalla festa del primo maggio, dalla voglia di pane, pace e poesia delle parole del medico contadino Nicola Barbato. Il che non significa affatto sottrarsi al conflitto, ma guardarlo con occhi fermi ma amorosi, «perché non c’erano solo lapidi, nella piana della Ginestra. Non c’era solo morte», pensa Enza prima di tornare, per la prima volta dall’eccidio, al sasso Barbato.


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