LA CULTURA DELLE POLTRONE BARATTA: “IN ITALIA SI SISTEMANO GLI AMICI NON SI FORMA UNA VERA CLASSE DIRIGENTE”
Più o meno un anno fa, durante una delle solite furenti esagerate tempeste che squassano gli eventi italiani ogni volta che ci mette il naso la politica, cioè sempre, anche quando non sa di che si tratta, il presidente della Biennale Paolo Baratta se ne stette nobilmente zitto. Finita a metà settembre la Mostra del Cinema, tra non sempre eleganti coltellate, il suo venerato direttore Marco Mà¼ller, certo dei suoi alti contatti, puntava sulle vedute lungimiranti del fresco ministro dei Beni Culturali, Giancarlo Galan, per essere rinominato lui, e cacciato il Presidente. Infatti, teoricamente accantonato Baratta, fu designato al suo posto quella simpatica e gioviale persona, pure di gran bell’aspetto, che è Giulio Malgara, un tempo amico di Berlusconi e geniale esperto di prodotti commerciali (tipo alimenti per cani e gatti). Venezia insorse, dal sindaco in giù, si raccolsero firme, arrivarono proteste da tutto il mondo della cultura, da Londra a Seul, e Baratta aprì bocca solo per una breve telefonata al ministro che tra l’altro prima gli era stato favorevole: «O io o il direttore della Tate Modern!». Poi si sa, in novembre, giù il governo Berlusconi, su quello Monti, giù Galan, su Ornaghi: e Baratta, 72 anni, plurilaureato, tre o quattro volte ministro, già nominato presidente della Biennale da Veltroni (1998-2001) e poi da Rutelli (2008-2011), riebbe subito la sua carica. Definendosi “leggermente autoritario” oggi dice: «Riconosco che Malgara, persona che stimo, è stato
esemplare, rifiutando l’incarico con grande fair play».
Rinnovato il suo mandato, il terzo, (2011-2015), Paolo Baratta si mise subito al lavoro: via ovviamente Mà¼ller, subito fagocitato dalla Polverini e da Alemanno per un faraonico cinefestival in novembre a Roma in funzione elettorale (2013), porte aperte ad Alberto Barbera, 63 anni, che torna alla Mostra dopo averla diretta dal 1998 al 2002, durante il primo incarico di Baratta, poi estromesso dal ministro del momento, Urbani, cioè dalla politica, per far posto a Mà¼ller. Senza proclami né millanterie, adesso Barbera sorride
contentissimo per la prossima mostra d’arte cinematografica a fine agosto, che compirebbe ottant’anni (la prima fu nel 1932), se, a causa delle interruzioni belliche e sessantottine, non fosse arrivata solo alla 69° edizione. Un paio di giorni prima ci sarà la vernice della 13° Biennale internazionale di Architettura, che è stata affidata all’architetto inglese David Chipperfield.
Dice Baratta: «La Biennale veneziana è la più grande istituzione culturale non solo italiana, riconosciuta come tale in tutto il mondo. Va trattata con rispetto, affidata a gente competente e appassionata, non necessariamente a me, ma a chiunque ci si dedichi, senza risparmio, sapendo quello che fa, e in grado di governare con stile e autonomia. Ma da noi c’è un elemento patologico molto italiano, tutto, anche la cultura è poltrona, serve a sistemare gente, a premiare quelli della tua parte politica, ad assicurare stipendi. La corsa indiscriminata a una carica, la distribuzione cieca agli incarichi, impedisce che si formi una vera classe dirigente al di là di ogni appartenenza politica, che consenta un sistema di selezione dei valori e delle competenze. Non è sempre così naturalmente, e per esempio sono in ottimi rapporti con il governatore del Veneto Luca Zaia, che è leghista ed ha subito capito che una istituzione internazionale come la Biennale non poteva essere utilizzata per interessi locali. Anche Bondi, quando era ministro dei Beni Culturali del governo Berlusconi, si è dimostrato persona molto civile, attenta, con un gran rispetto nei nostri confronti: e come tutta la destra, con quella ossessione dell’egemonia culturale della sinistra, cui opporre una opposta egemonia, però della destra, seguendo curiosamente una prassi, un sogno, non liberale ma marxista».
La prossima Mostra Internazionale di Architettura, biennale, e la Mostra Internazionale del Cinema, annuale, intrecceranno i loro inizi negli stessi giorni, alla fine di agosto. Sarebbe scorretto dire che rispetto all’attenzione del mondo, agli immensi spazi riservati in tutta la città , alla quantità di partecipanti e di visitatori della prima, la seconda rinchiusa al Lido, malgrado sia la più antica, la più nobile, la più raffinata del genere, rischia di apparire sacrificata all’aggressione e al superamento da parte di altri festival importanti, che sono ormai decine?
«Il confronto non è possibile. Alla Biennale di Architettura ci saranno 55 partecipazioni nazionali nei padiglioni dei Giardini, all’Arsenale, nel Centro Storico; il padiglione centrale curato da Chipperfield, presenterà 58 progetti, realizzati da un centinaio di architetti, artisti, fotografi, critici, studiosi. Per la prima volta saranno presenti paesi come Angola, Perù, Turchia, Kuwait, Repubblica del Kosovo. Se per quello che riguarda il cinema si riferisce soprattutto al Festival che si terrà a Roma in novembre, la concorrenza la vedo molto attutita. Non c’era un conflitto tra uomini, ma tra date, e le date laggiù sono state spostate. Noi occupiamo un momento strategico, quello da cui parte l’attenzione verso i film che potrebbero partecipare agli Oscar. E questo ci rende molto interessanti per le cinematografie emergenti, per quelle indipendenti, per i nuovi talenti, che solo da qui possono emergere. Sarà interessante per esempio vedere il primo film dell’Arabia Saudita, che potrebbe essere una sorpresa. Quanto al Festival di Toronto, che è quasi contemporaneo a quello veneziano, è vero che ha chiesto ai produttori di scegliere per le prime mondiali o là o qui. A parte che non vedo per loro l’interesse a scartare quei film che hanno deciso di essere qui, sono curioso di vedere se prevarrà un intento meramente commerciale, cioè la scelta di Toronto, o di prestigio e fascino, cioè Venezia. Certo abbiamo avuto anche un annus horribilis, quando pioveva sui computer nella sala stampa. È a questo degrado che abbiamo pensato di ovviare, naturalmente con le risorse disponibili: coprendo la voragine davanti al palazzo del cinema che sapeva di guerra, di terremoto, recuperando e rinnovando gli spazi esistenti, dando alla sala grande un foyer strepitoso, assicurando un’acustica tra le migliori al mondo, creando condizioni gradevoli nei dieci giorni di fatica, perché poi i veri fruitori della nostra Mostra sono la gente del cinema, i critici, i cinefili, i giornalisti, non la mondanità ».
La Biennale d’architettura nasce con un bel titolo, “Common Ground”, Terreno Comune: cosa dirà di nuovo o di diverso rispetto alla fantasmagoria architettonica dei grandi nomi di oggi, a cui ci stiamo abituando, ai palazzi come sculture, ai nuovi quartieri come installazioni?
«L’architetto ha rischiato di diventare l’uomo delle feste, il creatore di meraviglie sospese nel vuoto, da guardare come
un grande spettacolo, come un’opera d’arte di affascinante distrazione dai problemi del vivere e dell’abitare, dai bisogni della società civile, per accontentare singoli committenti per i quali è indispensabile attirare l’attenzione. Il common ground di questa Biennale invece riaffermerà l’importanza di un’architettura non costituita solo da singoli talenti, ma anche da un ricco patrimonio di idee diverse, riunite in spazi condivisi, ricchi di una storia comune, in contesti e con ideali collettivi».
Avete come tutte le istituzioni culturali e non, problemi di finanziamento?
«I contributi pubblici sono stabili, i costi sono aumentati, ma sono aumentate le entrate della Biennale: a parte gli sponsor, con l’ultima Biennale d’Arte del 2011, abbiamo avuto più visitatori, 440.000, e quindi ricavato dalla vendita dei biglietti più soldi, 5 milioni di euro. Con i nostri introiti abbiamo tra l’altro sistemato la biblioteca dell’archivio storico e restaurato completamente la sede di Ca Giustinian; 26 mila ragazzi e 3200 insegnanti del Veneto hanno partecipato alle nostre attività educative e speriamo di estendere questa iniziativa anche ad altre regioni».
L’estate prossima ci sarà la 55° Esposizione internazionale d’Arte diretta da Massimiliano Gioni: era dal 2003, da cinque Biennali fa, che non era più stata affidato a un italiano, che era allora Francesco Bonami.
«Era arrivato il momento di affidare la mostra a un giovane che rappresentasse un’area artistica in grande evoluzione, e Gioni ha 39 anni, è stato il primo europeo e il più giovane a dirigere la Biennale di Gwangiu nella Corea del Sud con un successo enorme e si occupa della Fondazione Trussardi a Milano. Ci saranno grandi novità e per la prima volta l’Argentina avrà un suo padiglione. Ma soprattutto l’avrà il Vaticano, che qui non era stato mai: se ne sta occupando con molto impegno il cardinale Gianfranco Ravasi, convinto che arte e fede, come nei secoli delle grandi committenze papali e cardinalizie, debbano continuare produrre capolavori».
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