Interventi «dettati» da Bruxelles. Il prezzo dello scudo

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Fino a ieri, nessun Paese aveva chiesto al presidente dell’eurogruppo, Jean-Claude Juncker, di dare il via alla procedura di acquisto sul mercato secondario di suoi titoli pubblici da parte del fondo salva Stati Efsf. Eppure è quella la procedura che dovrebbe essere seguita, secondo le linee guida stabilite dall’eurozona lo scorso novembre. Circostanza che rende ancora più curioso il comunicato di ieri del governo di Madrid. Ciò nonostante, vista la situazione dei mercati, non si può escludere che nei prossimi giorni la Spagna lo faccia: ieri l’ha invitata a prendere questa strada anche il commissario Ue (spagnolo) Joaquin Almunia. Come non si può affatto escludere che il governo di Mariano Rajoy si trovi presto a dovere domandare un intervento ufficiale di salvataggio alla Ue e al Fondo monetario internazionale.
Chiedere l’attivazione di un programma di acquisto titoli — il cosiddetto scudo anti-spread — non comporta l’umiliazione politica di domandare un salvataggio perché da solo un Paese non ce la fa. E nemmeno l’imbarazzo non insignificante di vedere arrivare nei palazzi del governo la troika — gli inviati della Ue, del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea (Bce) — a verificare che gli impegni presi in cambio degli aiuti siano rispettati. Ciò nonostante, l’intervento non sarebbe una beneficenza e la sua portata, anche politica, avrebbe peso. Le linee guida di intervento dell’Efsf stabiliscono che, una volta che il governo interessato ha chiesto l’acquisto di titoli, la Bce conduca un’analisi della situazione sui mercati e valuti i rischi che l’eurozona correrebbe se non si intervenisse. Poi, «la Commissione (Ue), in contatto con la Bce, preparerebbe in uno o due giorni un Memorandum of understanding specificando il periodo di disponibilità , l’aggiustamento di bilancio e le riforme strutturali necessarie per il sostegno». In altri termini, il governo che chiede deve prendere impegni in cambio.
In particolare, i Paesi con deficit eccessivo (sarebbe il caso della Spagna) devono tra le altre cose seguire le raccomandazioni tese ad assicurare una correzione del deficit accelerata e senza strappi; devono avere un debito e una bilancia dei conti correnti sostenibili; e non avere un problema di solvibilità  bancarie che mettano a rischio sistemico l’eurozona. In più devono realizzare le riforme specifiche concordate nel Memorandum di accordo. Come stabilito nel vertice Ue del 28-29 giugno, le operazioni sul mercato sarebbero poi effettuate (con denaro dell’Efsf) dalla Bce.
Pur non essendo umiliante, questa procedura ovviamente sarebbe problematica per il governo Rajoy. A complicare molto di più il quadro, però, è la situazione dei fondi salva Stati. Il primo, l’Efsf, oggi in funzione, è rimasto con circa 140 miliardi a disposizione, dopo che ne avrà  messi da parte 100 per salvare le banche spagnole. Pochi: con interventi diretti sui mercati potrebbero finire presto. L’altro, l’Esm, che ha una dotazione di 500 miliardi, non è ancora stato varato e perché diventi operativo occorrerà  aspettare la decisione sulla sua legittimità  da parte della Corte Costituzionale tedesca, non prima del prossimo 12 settembre. Ma anche quando dovesse entrare in funzione l’Esm, il fatto che la sua potenza di fuoco abbia un tetto fa ritenere a molti operatori che la sua capacità  di ridurre i tassi pagati dal Tesoro spagnolo sarebbe limitata. Per questo, sia Madrid sia Roma (ma anche Parigi è sulla stessa posizione) sarebbero favorevoli a dare al fondo salva Stati una licenza bancaria, con la quale avrebbe accesso illimitato alla liquidità  (denaro) della Bce: mesi fa, questa era considerata l’ipotesi bazooka con la quale spaventare i mercati e abbassare di tre-quattro punti i tassi.
A questa idea finora la Germania si è opposta, così come si è detta contraria all’ulteriore aumento della dotazione finanziaria del fondo. La decisione, l’altro ieri sera, dell’agenzia di rating Moody’s di mettere sotto osservazione la tripla A del debito tedesco, alla quale il Paese tiene gelosamente, ha tra l’altro ristretto l’agibilità  di movimento di Angela Merkel. Una delle ragioni dell’outlook negativo applicato da Moody’s a tutti i Paesi europei con tripla A (Finlandia esclusa) sta infatti nella scelta che questi hanno fatto di impegnare risorse finanziarie nei salvataggi dei Paesi in crisi, a rating decisamente peggiore. Ciò sta provocando nell’establishment politico ed economico tedesco reazioni scettiche sulla sostenibilità  dei salvataggi. Se la Germania perdesse il voto massimo di affidabilità , i guai diventerebbero seri. Per questo, la strada su cui si muove Frau Merkel si è ulteriormente ristretta.
Sui mercati, intanto, è sempre più forte la convinzione che solo un intervento deciso della Bce — «senza tabù», come ha detto il suo presidente Mario Draghi — possa far abbassare significativamente i tassi che pagano Madrid e Roma. Ma ci sono divieti di statuto e opposizioni politiche. «La Bce — diceva però ieri l’economista di una banca d’investimento — avrebbe in realtà  una buona ragione, o se vogliamo una scusa, per comprare titoli dei Paesi mediterranei. Succede infatti che la distribuzione della massa monetaria nell’eurozona, a causa dei flussi d’investimento, sta crescendo nel Nord Europa, in Germania e nei Paesi confinanti, e cala nel Sud. Intervenire allo scopo di ridistribuirla e per mantenere la stabilità  è prerogativa della Bce». Dovrebbe essere però un intervento massiccio: diretto o attraverso l’Efsf ma senza se e senza ma. È che tutto, in queste ore, è in gran movimento.


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