Il Tesoro Nascosto nei Paradisi Fiscali Vale Quanto il Pil di Usa e Giappone

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I numeri che nelle ultime ore stanno facendo onde alte in mezzo mondo sono questi: almeno 21 mila miliardi di dollari (circa 15 mila in euro), sarebbero depositati in paradisi fiscali. Forse 32 mila. In conti protetti, a bassissimo regime di tassazione nei soliti luoghi, Svizzera, Cayman Islands, Bermuda, Irlanda, Singapore e via dicendo. È come prendere le intere economie di un anno di Stati Uniti e Giappone e nasconderle sotto il tappeto. Oppure, nel caso della stima più alta, due volte il Prodotto lordo americano. Denaro in sonno, non usato a scopi produttivi e nemmeno tassato nel luogo in cui è stato prodotto. Una buona fetta di questo — tra i 7,3 e i 9,3 mila miliardi — di proprietà  di residenti in Paesi in via di sviluppo. Questa è solo la ricchezza finanziaria nascosta: non sono calcolate opere d’arte, immobili, gioielli, yacht domiciliati negli stessi paradisi.
Le cifre colossali risultano da uno studio realizzato per il gruppo di attivisti Tax Justice Network da James Henry, esperto di tassazione, ex capo economista della società  di consulenza McKinsey. È stato pubblicato ieri dal settimanale britannico Observer. Per arrivare alle sue conclusioni, Henry ha incrociato una serie di fonti, compresi dati della Banca per i regolamenti internazionali e del Fondo monetario internazionale. Ne risultano stime che forniscono una narrazione interessante dei movimenti della ricchezza nell’era della globalizzazione. Stime che però vanno trattate con prudenza e che possono essere lette da diverse angolazioni.
I 21-32 mila miliardi di dollari sono quanto sarebbe finito nei paradisi tra il 1970 e il 2010. Il risultato di movimenti di capitale favoriti — come dice lo stesso Henry — «da uno stormo di facilitatori professionisti altamente pagati e industriosi nei settori del private banking, della professione legale, della contabilità  e dell’investimento». Una parte di questi spostamenti sarebbe avvenuta in forma di flussi di capitale. Un’altra attraverso fatturazioni false. Dei 6.500 miliardi di dollari che per esempio sarebbero usciti illegalmente dai Paesi in via di sviluppo tra il 2000 e il 2008, 3.477 deriverebbero da fatture truccate che hanno consentito di creare offshore patrimoni non identificabili dalle autorità : il 60% dalla Cina, l’11% dal Messico, il 5% dalla Malaysia, il 3% da India e Filippine. Nello stesso periodo, invece, sarebbero usciti per vie diverse, ma sempre illegali, 427 miliardi di dollari dalla Russia, 302 dall’Arabia Saudita, 268 dagli Emirati Arabi, 242 dal Kuwait, 152 dal Venezuela.
Lo stesso fenomeno Henry lo misura nei Paesi sviluppati, naturalmente. Da una parte, individui ricchi e certe multinazionali usano vie illegali per evadere il Fisco: la ricerca individua abusi da parte di imprese nel commercio di banane, di minerali, di grano, di legno, nella finanza e nella gestione di contratti di proprietà  intellettuale. Dall’altra, questo denaro mobile trova punti deboli nelle legislazioni nazionali che consentono quell’elusione ai confini delle regole che va sotto il nome di pianificazione fiscale internazionale. La gestione della ricchezza da parte di grandi banche globali è uno dei modi che Henry ha utilizzato per le sue stime (fa l’elenco delle prime 50 nella gestione del denaro, in testa Ubs, Credit Suisse, Goldman Sachs).
Per illustrare il suo metodo, Henry cita anche l’enorme domanda, apparentemente inspiegabile, che si è sviluppata nel corso degli anni per i biglietti da cento dollari e la loro bassissima velocità  di circolazione; una serie di redditi mancanti nelle statistiche internazionali; le frequenti diversificazioni di portafoglio (per fare uscire denaro da un Paese) e altri indicatori. Il risultato è la stima stratosferica della «ricchezza» dei centri offshore.
Che l’evasione e l’elusione siano enormi è risaputo. La cifra di 21-32 mila miliardi di dollari ha però suscitato qualche perplessità : difficile immaginare che un forziere del genere se ne stia più o meno in sonno, in un mondo dove «il denaro non dorme mai». «Ci sono chiaramente quantità  significative nascoste — ha commentato alla Bbcil direttore dell’Ufficio per la semplificazione fiscale britannico, John Whiting —. Ma, se veramente è quella la misura, cosa sta facendo tutto quel denaro?». Whiting non ha elementi per contestare le cifre ma sostiene che «l’ipotesi che un ammontare del genere sia attivamente nascosto e mai usato sembra strana».
Lo studio di Henry pone ovviamente la questione delle mancate tasse raccolte dagli Stati. Ma anche quella dell’ingiustizia sociale. L’economista calcola che il 30,3% della ricchezza finanziaria mondiale sia nelle mani di 91.186 happy few: si tratta di 16,7 mila miliardi di dollari, 9,7 dei quali se ne starebbe offshore. Una super élite di redditieri e donne e uomini d’affari occidentali seduti allo stesso desco di nababbi del petrolio, dittatori africani ed emergenti asiatici e sudamericani. Se si apre un po’ il ventaglio, poco più di nove milioni di cittadini — membri d’onore di una più sobria (si fa per dire) «élite globale» che controlla oltre l’80% della ricchezza liquida del pianeta — avrebbero depositato offshore 19 mila e seicento miliardi di dollari. Paradisi, nel senso di mondi paralleli e invisibili.


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