Il Respiro del Jazz

by Editore | 15 Luglio 2012 13:09

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Saxophone Colossus non ha deluso chi conosce e ama la sua musica e sa quanto importante è stata ed è nella storia del jazz. C’è un nemico, però, implacabile e inarrestabile che sta piegando la sua tempra e la sua forza, già  fiaccate negli anni scorsi dalla scomparsa della moglie e manager Lucille, dalla tragedia dell’11 settembre (il suo appartamento era nei pressi del World Trade Center) e dall’abbandono della casa discografica con cui ha inciso per trentacinque anni. Il nemico è la vecchiaia contro cui Rollins, anche sul palcoscenico dell’arena S. Giuliana, ha lottato per non soccombere. Fiaccato nel corpo – era un gigante, cammina ormai con evidente difficoltà  spesso incurvandosi – Sonny Rollins sa esattamente cosa pretendere da sé stesso. Negli ultimi anni ha diradato le esibizioni, poche ma ancora esplosive come due anni fa a Perugia e, nell’ultima decade, al teatro dell’Opera e al Parco della Musica di Roma. Ora, però, non può più forgiare con il suo sassofono la materia sonora come se fosse un dio-fabbro, come ha sempre fatto dominando i concerti dalla prima all’ultima nota, quasi schiacciando i suoi partner mentre esaltava – in un vortice di ritmi, melodie ed energia – i jazzfan. Ora, come è stato per altri grandi del jazz – da Ella Fitzgerald ad Oscar Peterson – non vuole rinunciare a ciò che per un jazzista è momento insostituibile (quello dell’esibizione davanti al pubblico) ma è consapevole che, quasi d’un tratto, quell’arte improvvisativa che scorreva a fiotti – metodicamente coltivata – attraverso la sua mente, il suo soffio e le sue mani va, adesso, centellinata. Eppure le registrazione del concerto realizzato a New York per il suo ottantesimo compleanno (10 settembre 2010) lo vedevano in piena forma dialogare con il trombettista Roy Hargrove, con il contrabbassista Chris McBride e con tre (almeno all’apparenza) inossidabili coetanei quali il chitarrista Jim Hall (di due mesi più giovane), il batterista Roy Haynes (classe 1926) e il sassofonista Ornette Coleman (di sei mesi più vecchio di Rollins). Di quel recital (più un paio di brani incisi due giorni prima in Giappone) esiste un album della EmArcy/Doxy che si intitola Road Shows II in cui per venti minuti Rollins e Coleman incrociano i rispettivi sassofoni (tenore e alto) per ben venti minuti nel brano Sonnymoon for Two . Qui non si vuole esaltare acriticamente i vecchi artisti o, peggio, unirsi al coro che lamenta – o forse gioisce? – per la fine del jazz. Raccontare, piuttosto, come un jazzista che è tale dal 1947 utilizzi ancora oggi con saggezza e arte le energie che ha, senza nulla nascondere, per affermare la musica afroamericana come un’eredità  viva, non musealizzabile. Camicia azzurra, capelli ispidi e bianchissimi come la barba, occhiali scuri e voce ancora chiara, il sassofonista si è aggirato per il palcoscenico andando verso il pubblico e verso i musicisti, ribattendo note mentre con la mano destra dava enfasi al suo fraseggio. Nel primo brano del concerto perugino, Patanjali , è riuscito ad annullare la vecchiaia e a essere il mattatore di sempre, creando variazioni infinite sul breve tema ritmico. Poi ha percorso, in estrema sintesi e con interventi limitati quanti significativi, un patrimonio fatto di ballad, blues, calypso (da They Say It s Wondeful a Dont’ Stop the Carnival ). Il messaggio? Lo rubo a Maurizio Giammarco, sassofonista e compositore italiano che ha scritto un libro eccellente su Saxophone Colossus : «La sua principale preoccupazione (…) è trasmettere i valori essenziali del jazz in un mondo e in un ambiente che sembrano sempre meno interessati a comprenderne e a salvaguardarne il senso. Egli ha insomma tramutato l’arte della “manutenzione del sax” in arte della manutenzione del jazz » (M.Giammarco, Sonny Rollins. Lo zen e l’arte della manutenzione del sax, Stampa Alternativa 1997, p.134).

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