IL REGISTA SOVIETICO PERSEGUITATO DA TUTTI

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Mosca, 20 giugno 1939. La sala del Primo Congresso dei registi sovietici, dove quattro giorni prima erano risuonate le parole accorate del regista Vsevolod Mejerchol’d, che – pur con cedimenti e attente autocritiche – aveva difeso, tra applausi e autentiche ovazioni, quarant’anni di straordinaria sperimentazione teatrale, ascolta ora le relazioni conclusive. Il regista Aleksej Popov rassicura la platea: «non possiamo negare a Mejerchol’d la fiducia, il sostegno, affinché possa ricominciare a parlare con tutta la forza della sua voce possente». Il critico Solodovnikov si lamenta invece del brusco abbandono di Mejerchol’d subito dopo aver pronunciato a braccio la sua straripante autodifesa: «ha lasciato il nostro congresso al secondo atto e non ci ha raccontato fino in fondo la sua storia
personale». Quello stesso 20 giugno il regista Mejerchol’d, «l’uomo dell’Ottobre teatrale» (come l’aveva definito nel ’22 il Commissario all’Istruzione Anatolij Lunacarskij), era stato arrestato a Leningrado dalla polizia politica come «membro attivo di un’organizzazione antisovietica trockista», e dal quel momento la sua “storia personale” e la sua “voce possente” le affiderà  solo a verbali d’interrogatorio ampiamente manipolati e a istanze inascoltate.
Fausto Malcovati ha raccolto in volume (V. Mejerchol’d, L’ultimo atto, La casa Usher, 233 pagg., 22 euro) i documenti relativi ai suoi ultimi tre anni di vita, dagli interventi a consessi teatrali fino ai verbali e ai testi predisposti dal regista in sua difesa dopo l’arresto, materiale processuale a tutt’oggi inedito in Russia.
C’è qualcosa di incredibile nella parabola di Mejerchol’d. Arrestato nel ’19 dai “bianchi” per la sua vicinanza con i bolscevichi, della nuova rivoluzione proletaria lui, il “dottor Dappertutto” delle raffinate messe in scena simboliste d’inizio secolo, diverrà  fin dai primissimi anni la più coerente trasposizione in campo teatrale, così come Majakovskij lo fu per la poesia.
«Un giubbotto di cuoio e il revolver nella fondina», e in testa il berretto con la stella rossa. Così lo si vede girare per Mosca a predicare il verbo della nuova rivoluzione teatrale, sorta di «pirata dei mari del Nord, circondato dal suo equipaggio ». La sua azione è dirompente: sperimentalismo allo stato puro. Negli spettacoli degli anni Venti svuota la scena di ogni inutile orpello, mutandola in un intrico geometrico con ponteggi, scivoli e scale; fa recitare gli attori su un palcoscenico inclinato, mette parrucche verdi in testa ai personaggi di Ostrovskij, classico dell’Ottocento russo.
Il pubblico risponde entusiasta, le autorità  un po’ meno, sempre propense a difendere il sano retaggio della tradizione. Lo stesso Trockij, all’epoca potente Commissario del Popolo alla Guerra, definisce la biomeccanica mejerchol’diana “un aborto”, le sue messe in scena “dilettantismo provinciale”, e chiede un repertorio “sovietico” che soppianti le rivisitazioni dei classici: saranno le stesse accuse rivolte a Mejerchol’d quando, con Trockij ormai in esilio, il Potere riordinerà  le fila in campo artistico, cancellandolo.
È il gennaio del ’36. Anticipando di pochi mesi il primo dei grandi processi politici dell’età  staliniana, una serie di violenti articoli sulla
Pravdadà  il via alla campagna contro Dmitrij Å ostakovic e il cosiddetto formalismo nell’arte, rimproverando alle messe in scena delle sue opere anche il grave peccato di “mejerchol’dismo”. Mejerchol’d capisce che si avvicina anche per lui la resa dei conti e reagisce in due incontri pubblici, rovesciando l’accusa sui suoi imitatori, «non formalisti ma ciarlatani». È un contrattacco orgoglioso, veemente. Nota un testimone: «Non basta ascoltarlo, bisogna seguire i suoi movimenti, le espressioni del suo volto, i suoi gesti inattesi […]. Bisogna guardare i suoi occhi, dove tutto si riflette: l’ira, l’ironia, il disprezzo, la tenerezza, la poesia».
Nella Russia del nascente “Terrore” l’angoscia produce lettere. Nell’agosto del ’36 Mejerchol’d scrive a Stalin chiedendo un incontro: vuole esporgli i nuovi progetti, ma il giorno stesso in cui rientra a Mosca viene emessa la sentenza di morte contro Kamenev e Zinov’ev. È ormai tardi. Otto mesi dopo sarà  la moglie, l’attrice Zinaida Rajch, a inviare a Stalin una lettera arrogante e isterica, suggerendogli di cercare fra i trockisti gli artefici del suicidio di Majakovskij ed Esenin (la si legge in
Lettere al boia. Scrivere a Stalin,
Archinto, 149 pagg., 16 euro). Tre settimane dopo l’arresto del marito, alcuni sconosciuti le entrano in casa e l’accoltellano: morirà  sulla strada per l’ospedale.
Gli interrogatori di Mejerchol’d si svolgeranno secondo copioni già  noti: confessioni estorte, «risposte dettate dall’inquirente stesso alla stenografa » (come lamenta il regista in un suo esposto). L’atto d’accusa della Procura conferma che «non ci sono prove materiali relative al caso», ma il tribunale militare lo condanna lo stesso alla fucilazione per trockismo. La sentenza è eseguita il 2 febbraio 1940. Come di rito, la sua immagine comincia a scomparire anche dal passato. Nella sua ultima foto ufficiale al Primo Congresso dei registi, Mejerchol’d siede accanto all’uomo chiamato a presiederlo: è Andrej VyÅ¡inskij, feroce pubblico ministero nei tre processi di Mosca. Che brutte compagnie! Un accorto ritocco fa sparire Mejerchol’d e lo sostituisce col regista Popov.


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