IL MONTAIGNE RITROVATO COSàŒ HA FATTO DI SE STESSO UN CAPOLAVORO

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Perché comperare un volume senza trama né personaggi, che supera le 2500 pagine? E perché mai affrontare la fatica di leggerlo? Bastino due risposte: perché si tratta di un libro senza eguali in tutta la storia della nostra cultura, e perché ogni fatica si tradurrà  in godimento. Parola di Nietzsche, secondo cui «per il semplice fatto che un tal uomo abbia scritto, il piacere di vivere su questa terra è stato aumentato». Stiamo ovviamente parlando dei Saggi di Michel de Montaigne, con traduzione (riveduta e corretta rispetto a quella del 1966) di Fausta Garavini, e testo francese a fronte curato da André Tornon (Bompiani, pagg. 2503, 40 euro). Ma in cosa consisterà  tutta questa gioia della lettura? È presto detto: nell’osservare un pensiero che cresce su se stesso senza
posa. Immaginate una pianta rampicante, la voluta descritta dall’anello di Mà¶bius, le spire di una chiocciola, o l’elica prodotta da una tromba d’aria. Analogamente a questi fenomeni, il libro di Montaigne si avvita su di sé, si nutre della sua propria forma, e monta, sale, si espande. Lo prova, per esempio, la sua singolarissima struttura “geologica”. I Saggi sono infatti formati da tre strati successivi: il testo dell’edizione apparsa nel 1580, le aggiunte dell’edizione del 1588 e le integrazioni che l’autore annotò in margine a un esemplare di quest’ultima. Per indicare questa conformazione, sono state introdotti tre simboli, ossia le lettere [A] [B] e [C]. In tal modo, ogni pagina appare scandita cronologicamente, e, al pari di un terreno nato per sedimentazione, rivela le varie tappe del suo lento formarsi, il suo respiro, la sua curva generativa. Tutto questo, però, sarebbe solo una curiosità  bibliografica, se non si legasse al senso profondo dell’opera. Perché, in effetti, il punto è proprio questo: la scoperta che tema e scrittore coincidono: «Non sono io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità  personale, membro della mia vita ». Tra diario e autobiografia, trattato filosofico e manuale di etica, i Saggi, in breve, inaugurano la “saggistica”. Eppure, benché trattino di stoicismo, scetticismo, epicureismo, di dottrine politiche e morali, di questioni religiose e pedagogiche, il loro autentico centro è nell’io narrante, nell’autoritratto che esso persegue instancabilmente, parlando dei suoi amori e dei suoi odi, di viaggi, lotte, abitudini igieniche e difetti fisici: «Gli autori si presentano al popolo con qualche segno particolare e esteriore; io, per primo, col mio essere universale, come Michel de Montaigne, non come grammatico o poeta o giureconsulto […] Mai uomo trattò un soggetto che conoscesse e comprendesse meglio di quanto io faccia con quello che ho intrapreso».
Noi siamo, dice, “meravigliosamente corporei”. Da qui una franchezza ai limiti dell’immaginabile per la sua epoca, come quando parla di «peti armonizzati secondo il tono dei versi che si recitavano», oppure si rammarica delle piccole dimensioni del suo
pene, rimproverando la natura di avergli così arrecato «un danno enormissimo».
Da qui l’enorme apertura intellettuale verso il mondo, e verso il Nuovo Mondo, l’America, appena scoperto, con una serie di considerazioni che fanno forse di lui il primo antropologo e relativista moderno (con la condanna dei costumi europei a favore di quelli dei “cannibali”), nonché un pioniere dei diritti animali. «Quando mi trastullo con la mia gatta», osserva, «chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?» (e si ricordi che, poco più tardi, Cartesio vedrà  nelle bestie dei meri meccanismi, dei congegni qualsiasi dotati di movimento).
Un’ottima guida in tal senso potrebbe essere appunto Il gatto di Montaigne, di Saul Frampton (traduzione di Elisa Banfi, Guanda, pp. 286, 24 euro), incantevole introduzione a «uno dei pensatori più originali e divertenti del Rinascimento ». Peccato, ahimè, la mancanza di note, che avrebbe permesso di rintracciare le infinite citazioni di cui si compone questo godibilissimo baedeker, inteso a mostrare come il segreto dei Saggi risieda nella sorprendente fratellanza che essi istituiscono nei confronti del lettore.
Quando Montaigne, a soli trentotto anni, decise di ritirarsi nello spazio votivo della sua torre, dentro la sua biblioteca istoriata di citazioni greche e latine, in verità  chiudeva in quelle stanze anche i tumulti da cui stava fuggendo, lui, sindaco di Bordeaux, politico, soldato e diplomatico. Cercava se stesso ovunque, magari per riconoscersi alla fine nel dolore della sua malattia, residuo e calcolo renale, scoria dell’essere: «È qualche grossa pietra che preme e consuma la sostanza dei miei reni, ed è la mia vita che io espello a poco a poco, non senza una certa naturale dolcezza, come un escremento ormai superfluo e fastidioso».
Eppure, nel cuore di questa ricerca dubitativa e interrogativa avrebbe dovuto trovarsi l’opera di un’altra persona, ossia il
Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de la Boétie, il suo più caro amico, morto pochi anni prima. Altra feconda e inattesa contraddizione: il libro più centripeto e egoistico, nacque in omaggio a un legame fraterno, e da un seme politico, «in onore della libertà , contro i tiranni». Non c’è da aggiungere altro, se non forse il ben noto richiamo agostiniano: «Tolle, lege». Lettore, prendi e leggi. Non esiste di meglio.


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