Il marchio rubato
Giorni difficili per la Apple in Cina. Dopo le critiche per le condizioni schiavistiche di lavoro degli operai nella fabbrica della Foxconn che produce iPhone e iPad, la società di Cupertino è stata condannata al pagamento di 60 milioni di dollari di danni da un tribunale di Guangdong per aver usato illegalmente un marchio – iPad – depositato dalla società taiwanese Proview. Una sentenza che la Apple ha cercato di evitare proponendo accordo extralegali e ricordando che c’era un accordo commerciale di 55mila dollari con la sede taiwanese di Proview sull’uso del marchio: accordo, però, che la sede cinese non ha mai riconosciuto. Allo stesso tempo la Apple ha ricordato che la denuncia era arrivata due anni dopo che il marchio era usato per dare un nome al suo tablet e che la denuncia arrivava da una società sull’orlo del fallimento. L’alta corte della regione cinese non ha però avuto dubbi nel ritenere le scelte di Apple una violazione delle norme cinesi sulla proprietà intellettuale, minacciando di vietare la vendita del tablet sul territorio cinese, dove la società di Cupertino detiene quasi il settata per cento di questo specifico settore. Da qui la condanna, che rappresenta un ulteriore segnale che c’è stata un’inversione di tendenza nella politica di Pechino su copyright, brevetti e tutela dei marchi.
La «fabbrica del mondo» è stata infatti accusata di essere anche lo stato che ha sempre alimentato una sistematica violazione della proprietà intellettuale. Anche quando la Cina è entrata nel Wto, con l’obbligo quindi di far rispettare i Trips (i trattati appunto sulla proprietà intellettuale), il governo di Pechino è sempre stata aspramente criticato per la sua politica permissiva verso chi violava sistematicamente i trattati internazionale sul copyright o i brevetti.
Da due anni, però, Pechino ha promosso campagne contro i contraffattori e chi copiava o riproduceva illegalmente software, musica o film protetti da copyright. Allo stesso tempo, il governo ha incentivato le università cinesi a brevettare i risultati delle ricerca scientifiche in corso nella Cina. Questo cambio di rotta può apparire come un’operazione di facciata – la violazione della proprietà intellettuale è continuamente sottolineata da organismi internazionali e da altri governi – ma rappresenta invece una storia nota nel rapporto che intercorre tra difesa di copyright, brevetti e marchi e sviluppo industriale. Anche gli Stati Uniti, tra la fine dell’Ottocento e i primi venti anni del Novecento, hanno sempre guardato con molta tolleranza le imprese made in Usa che violavano la proprietà intellettuale. Una tolleranza che è venuta meno quando gli Stati Uniti sono diventati una potenza economica mondiale e hanno cercato di proteggere le loro imprese da concorrenti «stranieri». Al punto di essere diventati il paese che considera la violazione della proprietà intellettuale una minaccia alla sicurezza nazionale se svolta da imprese non statunitensi. Già negli anni passati, infatti, il governo di Washington ha minacciato di ricorrere a sanzioni contro, ad esempio, la Cina perché marchi famosi come Walt Disney o il software della Microsoft erano «saccheggiati» da società cinesi.
Dai segnali provenienti da Pechino emerge il fatto che la «fabbrica del mondo» vuol diventare anche una «società della conoscenza» come sono gli Stati Uniti, molti paesi europei e il Giappone. Dunque, non solo made in china, ma anche design in China. Non solo copiare con maestria, ma anche progettare manufatti ex-novo. Solo così si spiega il piano quinquennale del governo cinese che prevede un fiume di dollari per potenziare la formazione scientifica di base, per far diventare le università cinese centri di eccellenza. Dall’elettronica di consumo al software, dalle biotecnologie alle tecnologie applicate per le energie rinnovabili, dalla chimica al settore farmaceutico, la Cina ha deciso che deve diventare un paese che conta in questi settori ritenuti strategici per diventare una potenza economica globale. Così come politica era stata la spinta che aveva portato i media cinesi a puntare l’indice contro la Apple, dopo che nella fabbrica Foxconn molti operai si erano suicidati perché non reggevano i ritmi di lavoro imposti dall’imprese per rispettare i tempi di consegna alla Apple.
Questo spiegherebbe la portata politica della sentenza della corte di Guangdong; così come era stata politica la decisione di Pechino di mettere alle corde il motore di ricerca Google negli anni scorsi, promuovendo il locale Baidu.
Le reazioni della Apple sono stati prudenti. Un suo portavoce ha affermato che pagherà la somma stabilita dal tribunale di Guangdong e che rispetterà le leggi di Pechino. Una prudenza dovuta al fatto che Apple non solo produce a buon mercato in Cina, ma che il fu celeste impero costituisce il secondo mercato per i suoi prodotti, contribuendo al 20 per cento (7,9 miliardi di dollari) degli introiti della società di Cupertino.
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