by Editore | 13 Luglio 2012 8:59
Le parole sono importanti. Amedeo Benedetti, studioso del tema, definisce il libro come «un insieme di fogli stampati oppure manoscritti delle stesse dimensioni rilegati insieme in un certo ordine e racchiusi da una copertina». Al suo interno ci sono le parole che ne determinano la ragione d’essere, il contenuto su cui fino a ieri si sono confrontati lettori, scrittori, editori, correttori, illustratori, distributori, librai, bibliotecari e critici. La rivoluzione digitale ha spostato l’attenzione sul contenitore, e non perché si siano smaterializzati i libri, ma piuttosto per una colossale confusione tecnologica che si rispecchia nella mancanza di una terminologia accettata e condivisa di riferimento. Roger Clarke, dopo aver lavorato per trentacinque anni nel mondo dell’information
tecnology, ha provato a definire i processi di electronic publishing come «gli sforzi degli editori tradizionali di adattare i vecchi testi alle nuove infrastrutture informatiche». Quello che deriva da questo processo di adattamento è quanto mai incerto: a parte la necessità di mediazione di un’apparecchiatura elettronica, che cosa è, oggi, una pubblicazione digitale? Non certo un e-book, o non solo. Secondo l’esperto Roncaglia il termine e-book (che si può scrivere indifferentemente eBook, e-book o ebook) designa sia il testo del libro (l’e-text), sia il formato elettronico nel quale il testo digitale è convertito (l’ebook format), sia il dispositivo sui cui avviene la lettura (l’e-book reader). Avere un e-book presuppone la familiarità con terminologie decisamente più complesse di quelle necessarie a un lettore tradizionale (e nella sfera della tecnologia, non di temi, autori e contenuti). Se una volta ci si poteva comprare un bel libro senza sapere cosa fossero una brossura, una filettatura o una rilegatura olandese, il lettore digitale deve maneggiare fin dall’inizio parole e formati come AZW e Mobi (se gli piace il Kindle di Amazon), oppure Epub (se gli piacciono altri e-book reader). Deve imparare che un testo elettronico viaggia accompagnato dalla parola DRM, che significa “Digital Rights Management” e indica quegli strumenti che ne limitano la copiabilità . Se il vecchio lettore poteva prestare il suo libro agli amici, rischiando al limite che non gli venisse mai più restituito, quello nuovo non potrà rivenderlo o regalarlo perché, fin dal momento in cui l’ha acquistato, ha accettato di non averne il pieno possesso. Tra qualche anno, forse, se i moderni congegni di lettura sono stati progettati per durare nel tempo almeno quanto lo facevano i libri, potremo scambiarceli per condividere intere librerie digitali, o comprare all’asta il Kindle di un autore famoso per leggere tutti i suoi libri e le sue annotazioni.
Scegliere l’e-reader significa come minimo familiarizzare con le parole “e-ink” (uno schermo da lettura molto riposante) e “tablet” (una parola sia maschile che femminile che indica un dispositivo dove possono convivere testi, giochi, suoni e animazioni). Il lettore digitale deve poi sapere perfettamente cosa è una rete Wi-Fi e sperare che l’alimentatore del suo trabiccolo entri nella presa di corrente (dato che in Italia non esiste un vero standard e continuiamo a chiamare la presa Schuko “la tedesca”). Al momento di scaricare un libro (una frase già di per sé vagamente inquietante), dovrà poi cercare un negozio digitale appropriato a tutte le scelte fatte fino allora. E avrà le prime sorprese. Sull’Apple Store, ad esempio, troverà nella pagina dei “Libri” sia gli e-book che gli Audiolibri, anche se questi sono evidentemente tutt’altro: letture in formato Mp3, più vicine alla musica e al teatro che al libro stampato. In alternativa agli e-book, il nostro lettore potrà cercare una “App”, facendo attenzione a scegliere quella giusta, “App-Android” o “App-Apple”, a seconda
del sistema operativo del suo dispositivo. Se vorrà forzare le cose dovrà prendersi dei rischi, e manomettere il suo lettore elettronico con una procedura chiamata “JailBreak”. Le App sono infatti programmi realizzati per funzionare su specifici computer portatili, cellulari di nuova generazione e tablet. Sono generalmente piccole, con funzionalità limitate e, quando hanno contenuto editoriale, prendono il nome di “App-Book”, o “enhanced-book” (abbreviato in e-book per confonderci ancora di più). Ma siamo davvero sicuri che un lettore saprà distinguere se quello che cerca è un App-Book o un e-book, e acquistarlo nel posto giusto?
The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore, una App che si legge e si sfoglia come un libro animato, ha vinto il Premio Oscar come “cortometraggio di animazione”, e si scarica anche tra i film. E quindi? Confusi? Non potrebbe essere altrimenti. A forza di concentrarsi su tecnica e strategie commerciali, i giganti dell’elettronica rischiano di perdere di vista il rapporto tra nuovi contenuti e nuovi lettori. Come se Gutenberg avesse insistito più sul meccanismo della stampa che sulle opere stampate.
Ci vuole ordine, e per iniziare a farlo si potrebbe partire da nuove categorie di parole, meno tecniche e più sociali. Parole come “digitoria”, che ho sentito pronunciare dal collega Mattia Pavesi durante l’ultimo Salone del Libro di Torino. È “digitoriale” (o “digitorial”, se preferite) un contenuto narrativo, o divulgativo, in cui l’elemento digitale fa parte della struttura stessa dell’oggetto, e viene pensato fin dall’inizio del processo creativo. Si ribalta quindi l’assunto di Clarke: non più una conversione di materiali preesistenti verso le nuove piattaforme, ma una creazione originale che per sua stessa natura non potrà più “retrocedere” al vecchio e caro libro. Qualcosa che ha una vita e una collocazione tutta sua: né libro, né gioco, né film. Da cui si può ripartire a discutere: sui contenuti. Perché altrimenti il rischio è che a quel che resta del libro manchino proprio le parole.
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