by Editore | 3 Luglio 2012 6:54
Sono milioni gli italiani che ancora hanno con l’ultima guerra mondiale un rapporto fatto di ricordi, di amare esperienze personali e familiari, di giudizi politici, di racconti ascoltati e tramandati. La effettiva percezione degli italiani, la loro conoscenza storica di un evento che per cinque anni ha avuto per scenario il Mediterraneo, l’Atlantico, il Pacifico, tutta l’Europa, tutta l’Africa settentrionale, tutta l’Asia, e che ha visto la perdita di almeno cinquanta – o cento? – milioni di persone, non va però oltre l’Italia. Questo, nonostante vi sia stata e continui ad esserci anche nel nostro paese una varia pubblicistica sull’Italia fascista in guerra e una sufficiente informazione storica (manca però un preciso “centro” metodologico di riferimento che distingua nettamente i vincitori dai vinti) proprio sulla grande estensione geografica di quel conflitto. E nonostante, si deve aggiungere, la presenza di oltre un milione di soldati italiani fuori dall’Italia, in sterminati territori di guerra che andavano dal deserto africano alle ghiacciate pianure russe, in luoghi impervi, spesso impossibili, della Jugoslavia, della Grecia e dell’Albania, delle Alpi occidentali e in cruente battaglie navali dal Tirreno alle isole del mar Jonio, come Cefalonia, fino alla Sardegna. La linea di visibilità della guerra rimane dunque dentro i nostri confini forse perché coincide con le sofferenze dei militari ricadute sulle loro famiglie. E per una drammatica simmetria con la precedente guerra mondiale, quella del 1915-18, il numero delle vittime è stato pressoché identico: oltre 600 mila allora, oltre 600 mila nella seconda guerra. Solo che in questo caso almeno la metà furono civili: vecchi, donne, bambini che ebbero l’aggiunta di due anni di Resistenza, degli eccidi nazisti, delle violenze infinite, la paura, la fame. Sono dunque questi cinque anni “italiani” ad assorbire la memoria collettiva e ad escludere lo sguardo dagli ultimi e lontani orizzonti del conflitto.
L’enorme spazio di questa guerra è invece motivo di straordinario interesse, è la miniera d’oro degli storici, sia per il sempre continuo e costante apporto di nuovi documenti (archivi militari, segreti, pubblici e privati continuano ad aprirsi) sia per la necessità di misurare e confrontare idealmente le ragioni, chiamiamole così, di quella guerra agli interessi e ai valori del mondo contemporaneo. Per quest’ultimo aspetto è importate leggere il saggio di uno dei più attenti storici americani John Lukacs (The Legacy of the Second World War), apparso lo scorso anno negli Usa (Yale University Press). Ma l’eredità , il lascito, sarebbero insufficienti senza l’apporto di una ricerca minuziosa, ricca, per nulla scontata come quella dello storico inglese Max Hastings, uscita a Londra per la Harper Press (All Hell let loose. The World at War 1939-1945).
È un insieme narrativo di analisi e di sintesi alla quale non sfugge la geografia umana di quella guerra, con puntuali richiami anche a testimonianze inedite (spesso lettere alle famiglie) di soldati e ufficiali dei vari eserciti in lotta tra loro. Sono lampi di verità e di paradossi come, ad esempio, le lettere alla moglie del tenente italiano Pietro Ostellino, il quale, con una curiosa operazione di plagio, coinvolge e responsabilizza la consorte nella autoesaltazione fascista per le prime vittorie in Nord Africa nel 1941: «… Tu devi offrire le tue sofferenze alla causa per la quale tuo marito combatte con entusiasmo e passione». Ma poi ci sono lettere da tutti i fronti, con sentimenti e risentimenti ben diversi. C’è lo sconvolgimento delle esistenze dentro lo sconvolgimento di una storia enorme, troppo grande, troppo importante per milioni di persone che quella storia la hanno vissuta e nella quale hanno perso la vita o solo la gioia, l’innocenza, il gusto di viverla. Anche questa fu la seconda guerra mondiale raccontata da Hastings. Un libro che però riconfermasse, magari con nuovi documenti, quello che tutti sanno da sempre – che fu una guerra tra la libertà e la barbarie, tra il male e il bene, tra ideologie armate, insomma, «il più grande e il più terribile evento della storia umana» – non servirebbe a molto se, come insiste l’autore, qualunque percezione, conoscenza, riflessione critica o autocritica si abbia o si faccia di quella guerra non si fondasse su una assoluta certezza: «che la vittoria degli Alleati ha salvato il mondo da un destino ben peggiore di quello che sarebbe seguito alla vittoria della Germania e del Giappone». In altre parole, gli Alleati non hanno soltanto vinto un nemico implacabile e terribile, ma ci hanno “salvati” da esso, cioè ci hanno salvati da un Macchina di degradazione che avrebbe stritolato inesorabilmente, tra le spire del nazionalismo, dello sciovinismo, dell’incultura, del razzismo, non solo la libertà ma l’idea e la civiltà della libertà . «Questa consapevolezza può accontentare i cercatori di moralità e di verità ». Sono le parole che chiudono le 675 pagine volume.
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