Il gelo dei pm palermitani «Basta reticenze istituzionali»

by Editore | 20 Luglio 2012 6:44

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PALERMO — Paolo Borsellino è seduto tra il pubblico, ma non ascolta. È impegnato a maneggiare un videogioco, e si può capirlo. La commemorazione del nonno del quale porta il nome non può essere in cima ai pensieri di un bambino di quattro anni e mezzo, e tantomeno gli imbarazzi e le tensioni che si respirano nell’aula magna del palazzo di giustizia. Chissà  se l’altro Paolo Borsellino, quello celebrato nel ventesimo anniversario della strage in cui fu eliminato assieme a cinque agenti di scorta, avrebbe avuto lo stesso atteggiamento distaccato; o si sarebbe appassionato, o indispettito, davanti ai contrasti che tracimano mentre tutti esaltano il suo «fulgido esempio di magistrato autonomo e libero da ogni forma di condizionamento».
È quel che dice il presidente della sezione locale dell’Associazione nazionale magistrati, Nino Di Matteo, uno dei pubblici ministeri che indagano sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia prima e dopo l’eccidio di via D’Amelio. E ribadisce: «È arrivato il momento di dire basta alle reticenze, anche istituzionali, che hanno ostacolato il nostro lavoro». Il pubblico presente applaude convinto. Anche il presidente della Camera Gianfranco Fini, la più alta carica istituzionale arrivata da Roma, seduto in prima fila.
Subito dopo è il turno del presidente della Corte d’appello, Vincenzo Oliveri, che legge il messaggio di saluto inviato dal capo dello Stato. Napolitano invita a proseguire sulla strada intrapresa per smascherare «errori ed infamie» che hanno depistato le indagini sulla strage di vent’anni fa, nonché a fare luce su «torbide ipotesi di trattativa». Anche per questo, aggiunge, bisogna evitare «sovrapposizioni nelle indagini» e «pubblicità  improprie e generatrici di confusione». Se il presidente della Repubblica è intervenuto, chiarisce, l’ha fatto solo perché è suo dovere sorvegliare.
Applausi anche stavolta, ma meno calorosi. Al tavolo della presidenza tutti battono le mani, tranne Di Matteo e il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, segretario dell’Anm palermitana. Fini approva convinto, mentre dietro di lui l’altro procuratore aggiunto Antonio Ingroia, resta immobile. Nel conflitto sollevato davanti alla Corte costituzionale, Napolitano ha messo sotto accusa l’inchiesta che lui sta conducendo con Di Matteo e gli altri sostituti, almeno per ciò che riguarda la gestione delle intercettazioni in cui è incappato lo stesso presidente della Repubblica.
Subito dopo il procuratore Messineo prova a ridimensionare la contrapposizione che si respira nell’atmosfera fredda dell’aula magna (non per l’aria condizionata). Quel che accadde nei cinquantasette giorni che separano la morte di Falcone da quella di Borsellino, ricorda, «oggi può essere fonte di imbarazzo per qualcuno». I magistrati del suo ufficio hanno il dovere di approfondire e lo stanno facendo, assicura, «sebbene errori e manchevolezze siano sempre possibili». Come dire che se pure avesse ragione Napolitano, eventuali sbagli sono solo il frutto dell’ansia di verità , non della volontà  di violare immunità  o campi altrui. Applausi di quasi tutti.
Ed ecco il momento più atteso o temuto, a seconda dei punti di vista. Il turno di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato e animatore del «Popolo delle agende rosse» venuto fin qui per far sentire appoggio e vicinanza agli inquirenti, più che ai loro sorveglianti e censori. I battimani arrivano prima ancora del discorso, che com’era immaginabile allude direttamente al capo dello Stato. «Ora che grazie alla Procura di Palermo si stava avvicinando la verità  mi aspettavo messaggi di sostegno — dice —. Invece ho visto solo provvedimenti e iniziative che intralciano la strada della giustizia e della verità . Ancora adesso». Si riferisce alle parole di Napolitano sul rischio di indagini sovrapposte. «Questo mi agghiaccia, mi sconcerta», insiste. Aggiunge di sentire una brutta aria, «troppo simile a quella del ’92», cioè quando le bombe hanno ammazzato i magistrati e le loro scorte. «Noi invece vogliamo magistrati vivi», e stavolta gli applausi della platea sono entusiasti e prolungati. Tranne che da parte di Fini, le mani inchiodate ai braccioli della sedia.
Il presidente della Camera applaude invece Rita Borsellino, europarlamentare del Pd che con toni più pacati ribadisce il concetto che niente dovrà  fermare i nuovi accertamenti su quello che è successo dopo la strage di Capaci. Anche lei difende i pm di Palermo che indagano sulla trattativa, e quasi s’infiamma: «Non permetterò che Paolo venga ucciso un’altra volta impedendo l’accertamento della verità ». Segue una standing ovation dalla quale la terza carica dello Stato non si può esimere. Alla fine, un ex magistrato che lavorò al fianco di Borsellino e oggi presiede il tribunale di Sciacca, Andrea Genna, ricorda che il giudice assassinato dopo l’incomprensione con Leonardo Sciascia per il famoso articolo sui «professionisti dell’antimafia», smorzò le frizioni ed evitò ogni tipo di frattura. «Fu lungimirante», dice. Di nuovo applausi, che però non riescono a sciogliere del tutto il ghiaccio di una commemorazione nel segno dei contrasti.
Paolo Borsellino, il piccolo, se ne va accompagnato dai suoi genitori. L’altro continua a mancare da vent’anni.

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