IL FELICISMO, LA NUOVA IDEOLOGIA

by Editore | 1 Luglio 2012 14:50

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Nelle prossime settimane, finanze permettendo, ci impegneremo in una periodica ricerca della felicità , le vacanze. Si tratterà  di un episodio minore di “happyism”, che potremmo tradurre con “felicismo”, una specie di feticismo della felicità  in cui la felicità  diventa una ragione di vita. Intendiamoci: la felicità  è sempre di moda, come dimostra la quantità  di saggi anche recenti sull’argomento, da David Malouf, La vita felice (Frassinelli), a Economia della felicità  di Bruno S. Frey e Claudia Marti (il Mulino), da L’arte della felicità  in un mondo in crisi del Dalai Lama (Mondadori) a servizi speciali di riviste (come l’ultimo numero di Colors), da testi come
Pensieri lenti e veloci del premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman (Mondadori) alla moltitudine di guide di self-help per essere felici. Ed è sempre stato così, basti dire che uno dei grandi successi editoriali di vent’anni fa era stato la
Lettera sulla felicità  di Epicuro. Tuttavia, il caso del felicismo è più specifico. Come ricorda l’economista americana Deirdre N. McCloskey in un articolo apparso l’8 giugno su The New Republic, si sta affermando una “scienza della felicità ”, identificata con il piacere, che classifica le persone sulla base di un punteggio da uno a tre: “non troppo felice”, “piuttosto felice”, “molto felice”. E che spiega come passare da uno a tre seguendo il consiglio di economisti e psicologi. Di qui curiose statistiche sui paesi più felici al mondo, come se le nazioni fossero persone. Secondo una indagine recente, nella scala dei trenta paesi più felici troviamo in testa la Danimarca e in fondo la Germania (l’Italia è terzultima). Il che alla fine è bizzarro, perché significa che passando un confine, quello tra Danimarca e Germania, si entra in un abisso di infelicità , o quantomeno si passa dal massimo al minimo.
Il padre del felicismo è lo stesso filosofo che ha inventato il Panopticon, cioè il dispositivo che permetteva a un solo secondino di controllare a vista tutti i carcerati, Jeremy Bentham, che nel 1789, con la Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione,
aveva proposto un’algebra morale, capace di quantificare il piacere e il dolore per ottimizzare i nostri comportamenti. Bentham era un uomo geniale e infantile, fondatore della London University dove dispose che si conservasse in una specie di armadio la sua mummia, con un curioso ideale di socialità  (e felicità ) postuma.
In questa centralità  della felicità  è all’opera una ideologia fortissima, che è coestensiva alla modernità  illuministica. In effetti, l’idea che l’uomo sia destinato a scontare un peccato originale o quantomeno la colpa di essere nato è il carattere fondamentale dei reazionari, da Dostoevskij a Cioran, passando per Renan che poco prima della Comune considerava che la rovina della Francia dipendeva dalla “felicità  volgare” delle masse eccitate contro il potere. Gli illuministi, invece, affermano che è nostro diritto ricercare la felicità , ed è nostro dovere non considerare l’infelicità  nostra e altrui un retaggio naturale. Nel 1738 Mirabeau aveva detto che “il nostro unico scopo” è la felicità , e Voltaire, nel suo Elogio del mondano, scriveva “Dio mi ha detto: sii felice!”. E sappiamo tutti che nella Costituzione americana del 1776 sono considerati diritti inalienabili dell’uomo la vita, la libertà  e, per l’appunto, la ricerca della felicità .
Una simile ricerca della felicità  incarna i più alti ideali di un’epoca, espressi in un’altra frase sempre citata, di Saint-Just: “La felicità  è un’idea nuova in Europa”. Il senso della dichiarazione si capisce nel seguito del discorso: “Non tollerate che ci sia nello Stato un solo povero e infelice”, perché la felicità  è una felicità  comune (come si legge nel primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793). Questa felicità , dunque, si oppone alla “felicità  illusoria” di cui parla Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, cara ai conservatori (Domenico Losurdo ha ricordato che un giornale ultraconservatore austriaco si intitolava
Eudaemonia, richiamandosi alla dottrina che identifica il bene con la felicità ) e imparentata con la “felicità  vegetativa” dei poveri durante l’Ancien Régime, di cui parla Tocqueville, quella a cui si appellavano i proprietari terrieri che pretendevano che gli schiavi fossero felici, e ai quali Condorcet ribatteva: “Non si tratta di sapere se i Negri sono felici ma se godono dei diritti di cui tutti gli uomini devono godere”. C’è dunque una contrapposizione tra una felicità  illuminista ed emancipativa e una felicità  apparente e conservativa. Così come è ovviamente controverso stabilire che cosa si intenda con “felicità ”, che per Aristotele è un equilibrio virtuoso, mentre Bentham la identifica apertamente con il piacere e con un elemento quantitativo, tanto che Carlyle dirà  che la sua è “la felicità  dei porci”, e John Stuart Mill suggerirà  di cercare un piacere qua-litativo, osservando che un dotto infelice è preferibile a un ubriacone felice. Tutto sommato il felicismo radicalizza l’elemento edonistico e quantitativo, e suggerisce la ricerca di una felicità  compulsiva e bulimica, un po’ come quella di Shame di Fassbender, cioè imparentata più con la dipendenza che con la emancipazione. Come evitare di confondere la felicità  con il felicismo? Suggerirei conclusivamente tre elementi di buon senso.
Primo, la felicità  richiede un oggetto. Nelle istruzioni degli psicofarmaci si legge talora, tra gli effetti collaterali, che potrebbero provocare “euforia”, e suonerebbe davvero strano che uno psicofarmaco potesse provocare, sia pure a livello di effetto collaterale, della felicità . Perché? Secondo me la differenza tra euforia e felicità  sta nel fatto che la felicità  dipende dall’esistenza di qualcosa nel mondo (e questo mondo può essere anche la nostra psiche) che ci rende felici: una persona, una cosa, una speranza, anche una idea. Non una reazione enzimatica senza oggetto, che creerebbe per l’appunto una semplice euforia. Secondo, non può essere un fatto puramente individuale. Freud diceva che non si ride e non si piange mai da soli, e credo che avesse ragione. L’uomo è un animale politico, vale a dire un animale che sta in società . Tanto è vero che il solo fatto di stare da soli può essere una causa di infelicità . E d’altra parte non c’è felicità , per immensa che possa essere, che non risulti un po’ diminuita dal fatto di non poterla dire ad altri, così come ci sono felicità  che per essenza non ci sarebbero se non ci fossero degli altri. Immaginiamo qualcuno che riceva una medaglia, ma in segreto, e con l’ordine di non dirlo a nessuno e di nascondere la medaglia. Sarebbe felice? C’è da dubitarne. Un corollario di questo punto è che risulta piuttosto difficile essere felici se si causa l’infelicità  degli altri, e questo purtroppo è un problema che si dà  spesso. La conclusione, dunque, come suggeriva Socrate (e come è stato confermato nel 2004 in un monumentale volume curato da Seligman e Christopher Peterson, Character Strengths and Virtues: A Handbook and Classification, e più recentemente da Il senso della vita del grande critico letterario americano Terry Eagleton) è che si è felici quando si è virtuosi. Infine, e soprattutto, non si deve dimenticare che la ricerca ossessiva della felicità  è da annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità . Kierkegaard ha osservato che gli uomini inseguono così ostinatamente la felicità  che a volte la sopravanzano. Credo che sia verissimo, ed è per questo che le
Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick (1983, tradotto in italiano da Feltrinelli) è un libretto da cui si può imparare molto. Così come da  La felicità  di Paolo Legrenzi (il Mulino, 1998), la cui tesi fondamentale è che non ha senso misurare la felicità , ma che si possono invece riconoscere con precisione gli ostacoli che si frappongono tra noi e lei. Senza dimenticare che la felicità  è uno stato: si è felici non quando si cerca la felicità , ma quando, cercando qualcos’altro o non cercando affatto, ci accorgiamo di essere felici, e questa consapevolezza spesso coincide con la fine della felicità  perché, come ha scritto Adorno “Per vedere la felicità , se ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità  è la gratitudine”.

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