by Editore | 19 Luglio 2012 8:30
PALERMO — Sono tanti soldi, più di quaranta milioni, quelli che Silvio Berlusconi ha versato a Marcello Dell’Utri negli ultimi dieci anni. Il prezzo del ricatto, secondo l’accusa, esercitato sull’ex presidente del Consiglio da uno dei più stretti collaboratori colluso con la mafia. Il quale, per tacere particolari scomodi o per altre ragioni legate alle sue «relazioni pericolose» con i boss, ha costretto Berlusconi a pagarlo profumatamente. Anche di recente. Almeno fino alla vigilia della sentenza della Cassazione, dopo la quale sarebbe potuto finire in galera. A meno di darsi a una clamorosa latitanza. Invece evitò la cella perché la Corte annullò la condanna, pur confermando i rapporti dell’imputato con Cosa Nostra negli anni Settanta e Ottanta. Ma il ricatto, nell’ipotesi della Procura di Palermo, non s’è mai fermato.
Solo la metà di quel fiume di denaro risulta formalmente giustificata dall’acquisto di villa Comalcione a Torno, sul lago di Como. Venduta da Dell’Utri a Berlusconi per 21 milioni l’8 marzo scorso (il giorno prima del giudizio della Corte suprema, per l’appunto), nonostante una valutazione del 2004 fissasse il prezzo della lussuosa abitazione a «soli» 9,3 milioni. Tutto il resto non ha motivazione ufficiale, e i versamenti dai conti bancari dell’ex premier a quelli del senatore e di sua moglie sono stati registrati sempre sotto la stessa voce: «prestito infruttifero». Stesso discorso per la donazione di titoli bancari.
I magistrati considerano Berlusconi vittima della presunta estorsione realizzata dal senatore del Pdl che lo aiutò a fondare Forza Italia e l’ha accompagnato in tutta la sua avventura politica. E come lui sua figlia Marina, giacché alcuni pagamenti sono arrivati da conti correnti cointestati a lei. Per questo entrambi sono stati convocati.
La nuova indagine nasce da uno stralcio di quella sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, tra il ’92 e il ’94, all’interno della quale un anno fa la Procura di Palermo acquisì le prime tracce dei movimenti milionari scovati dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta romana sulla cosiddetta P3 (Dell’Utri è imputato anche lì): 9 milioni e mezzo elargiti in tre tranche: 1,5 il 22 maggio 2008, tratto da un conto del Monte dei Paschi di Siena, e altri 8 tra il 25 febbraio e l’11 marzo 2011, arrivati da una filiale milanese di Banca Intesa private banking. Dopo gli approfondimenti degli investigatori delle Fiamme gialle sono venuti alla luce altri movimenti bancari sospetti, è così scattata la nuova ipotesi di estorsione. Collegata, più che alla trattativa, al processo per concorso in associazione mafiosa a carico del senatore.
Proprio ieri è cominciato il nuovo dibattimento di appello, dopo l’annullamento della Cassazione. Che però è stato parziale, poiché alcune parti della precedente sentenza sono state confermate. Come quella in cui è sancita la colpevolezza del senatore per i fatti precedenti al 1974. È stato definitivamente accertato che Dell’Utri, «avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss, realizzò un incontro materiale e il correlato accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi e l’imprenditore amico Berlusconi», hanno scritto i giudici. Un’intermediazione da cui derivò «l’accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell’Utri» in favore del futuro presidente del Consiglio. In questa trama criminale è rimasto impigliato il solo senatore, mentre Berlusconi non ha subito conseguenze nonostante le inchieste subite (è stato più volte inquisito dalla Procura di Palermo, ma sempre archiviato) sulla misteriosa origine dei suoi capitali. Oggi l’ipotesi dell’accusa è che con quei quaranta milioni, e chissà quali altre «donazioni» non ancora scoperte, l’ex premier abbia comprato il silenzio del suo amico e collaboratore su qualche particolare che poteva trasformarlo da vittima dei boss in un complice consapevole dei traffici di Cosa Nostra.
In questa ricostruzione Berlusconi è diventato dunque vittima di Dell’Utri, dopo esserlo stato della mafia per i ricatti dai quali il senatore lo avrebbe liberato grazie ai suoi «buoni uffici» negli anni Settanta e Ottanta. Ad esempio attraverso l’assunzione come stalliere nella villa di Arcore del «picciotto» Vittorio Mangano, «indicativa di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia», scrivono ancora i giudici della Cassazione.
La convocazione dell’ex premier in Procura coincide con quella chiesta dal sostituto procuratore generale nel nuovo processo d’appello a Dell’Utri. Anche in quel giudizio l’ex capo del governo è considerato dall’accusa una «persona offesa» dai reati attribuiti all’imputato. Nel 2002, ascoltato dal tribunale, si avvalse della facoltà di non rispondere poiché all’epoca era indagato in un procedimento connesso. Oggi non lo è più, e quindi sarebbe obbligato a rispondere. Come in Procura. I legali di Dell’Utri si sono opposti alla sua testimonianza. La Corte d’Appello deciderà , i procuratori hanno già deciso.
L’acquisto della villa sul lago di Como, oltre a non spiegare l’intera somma dei versamenti, agli inquirenti sembra un paravento. Al di là della sopravvalutazione rispetto alla stima del 2004, infatti, Dell’Utri giustificò i «prestiti infruttiferi» del 2008 e del 2011 con i restauri da effettuare in quella residenza. Finanziati da Berlusconi, dunque, che alla fine avrebbe l’avrebbe pagata più di 30 milioni. Un po’ troppo, pensano i pubblici ministeri in attesa di spiegazioni.
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