by Editore | 25 Luglio 2012 8:36
PALERMO — Hanno sperato fino all’ultimo, anche attraverso intercettazioni proiettate dentro i Palazzi romani, di incastrare con le loro stesse parole testimoni e indagati eccellenti della cosiddetta trattativa Stato-mafia. E hanno anche sperato che qualcuno dei protagonisti di quella drammatica stagione segnata dall’accelerazione della strage di via D’Amelio si decidesse a parlare, si pentisse.
Ma, pur senza prove certe e schiaccianti, come sostiene una sfilza di avvocati, dalla Procura della Repubblica di Palermo parte ugualmente la richiesta di rinvio a giudizio per 12 imputati, accorpando in un tutt’uno i capi dei corleonesi, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, da Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a Giovanni Brusca, con un condannato e pluriprocessato come Marcello Dell’Utri, un discusso mezzo pentito come Massimo Ciancimino accanto ai generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, al colonnello Giuseppe De Donno, compresi due ex ministri, Calogero Mannino e Nicola Mancino, l’ex presidente del Csm, l’unico accusato «soltanto» di falsa testimonianza, visto che per gli altri hanno rispolverato dal codice un reato previsto per i golpisti, «attentato a un corpo politico».
La richiesta è stata solo vistata dal procuratore Messineo che in passato aveva espresso dubbi e perplessità sulle conclusioni raggiunte dai suoi colleghi. Ma che invece aveva difeso la correttezza del loro operato nella gestione delle intercettazioni tra Mancino e il presidente Napolitano, oggetto di conflitto di attribuzione con la Procura sollevato dal capo dello Stato davanti alla Corte costituzionale. Ed è proprio Mancino a dirsi indignato per il mancato recepimento di una precisa richiesta ai pm di Palermo: «Non hanno ascoltato i responsabili nazionali dell’ordine e della sicurezza pubblica, capi di gabinetto, direttori della Dia, capi della mia segreteria, compreso il professore Arlacchi, ad esempio, tutti in grado di dichiarare se erano mai stati a conoscenza o se mi avessero parlato di contatti fra gli ufficiali dei carabinieri e Vito Ciancimino e, tramite questi, con esponenti di Cosa nostra». Poi, indispettito: «Per questo ho rinunciato al proposito di farmi di nuovo interrogare e di esibire documenti. Meglio dimostrare in giudizio la mia innocenza».
Qualcosa non torna nel racconto giudiziario di questi anni anche per Mannino che, assolto dopo 17 anni di calvario, fu arrestato durante la gestione di Giancarlo Caselli alla procura di Palermo, allora in assoluta sintonia con il colonnello Mori al quale non si contestavano i 18 giorni di vuoto trascorsi per la perquisizione nella villa covo di Totò Riina. Mori incastrò Mannino, ma per un paradosso tutto da chiarire oggi è accusato di avere guidato la trattativa avviata dallo stesso Mannino e si ritrovano insieme coimputati nell’ultima appendice giudiziaria gestita da Ingroia mentre sta per mollare Palermo e volare in Guatemala.
Resta il nodo irrisolto di quella sintonia fra Procura e carabinieri poi spezzatasi, senza dire perché nella rivisitazione fatta anche dai pm Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, peraltro convinti che Bagarella e Brusca nel ‘94 «prospettarono al nuovo capo del governo in carica Berlusconi, attraverso Vittorio Mangano e Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura». Questo si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, alimentata dalle indagini della Dia di Palermo, diretta dal colonnello Giuseppe D’Agata. Una linea che demolisce ruolo e spessore del capo della polizia Parisi e dell’ex vicedirettore del Dap Di Maggio, non incriminati perché deceduti, ma accusati di avere «ammorbidito» la linea dello Stato contro la mafia, cedendo su centinaia di 41 bis, il carcere duro varato dopo le stragi.
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