I GIORNI DEL GIUDIZIO

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Se è ormai chiaro che la politica di rigore di Monti (ma si potrebbe dire lo stesso della politica di Rajoy in Spagna) non sta avendo il successo sperato, qual è la ragione dell’insuccesso? È che troppo rigore sta uccidendo l’economia, affossando la domanda aggregata; oppure è che il rigore imposto dal governo al Paese è ancora insufficiente?
La risposta, secondo me, è che entrambe le affermazioni sono vere, perché c’è rigore e rigore. Prima di tutto, il governo Monti ha agito soprattutto sulle entrate pubbliche, aumentando in modo sostanziale il carico fiscale, che già  era tra i più alti al mondo. Questo non può che aver contribuito a soffocare un’economia che già  da anni boccheggiava. Naturalmente, una diminuzione della spesa pubblica dello stesso ammontare dell’incremento delle entrate avrebbe avuto identici effetti sulla domanda aggregata. Ma questa è proprio la ragione per cui l’analisi di domanda aggregata è limitata e sostanzialmente errata: le tasse distorcono direttamente l’attività  produttiva mentre la spesa pubblica è in larga parte improduttiva (non è sempre così, ma in Italia lo è). In altre parole, a limitare la spesa abbassando le tasse (o non alzandole) si liberano risorse, perché la torta non è fissa. Il rigore quindi sta affossando la domanda aggregata; e il fatto che il rigore sia ottenuto attraverso la tassazione sta impedendo alla torta (all’economia) di crescere. Le imprese che delocalizzano (non solo la produzione), le multinazionali che investono altrove, i cervelli che se ne vanno (e quelli che non vengono), i giovani e le donne sotto-occupati, tutte queste sono manifestazioni della torta che non cresce e anzi si restringe.
Ma purtroppo la ragione più importante per cui la politica economica del governo Monti non sta riportando il successo che speravamo ottenesse è ben più profonda e affonda le radici nella strutturale debolezza delle istituzioni del nostro Paese. Sulla carta, il Paese ha istituzioni solide: una democrazia parlamentare, una giustizia autonoma, sanità  e istruzione pubbliche, una struttura industriale ben sviluppata, una informazione libera, un mercato del lavoro protetto… A ben vedere, però, in molti casi, queste istituzioni appaiono corrotte all’interno, dietro ad una nobile corazza usata come scudo: la casta dietro alla democrazia parlamentare, la partitocrazia correntizia dietro lo scudo dell’autonomia della magistratura, il parcheggio di famigli e protetti dietro il servizio pubblico, sprechi e ancora rendite e partitocrazia dietro alla sanità  pubblica, clientelismo e assistenzialismo dietro alla sussidiarietà  verso un Sud meno ricco, un mercato del lavoro duale senza reale protezione per giovani, e così via. Il debito pubblico italiano è il risultato quasi necessario, la manifestazione, di queste istituzioni che hanno negli anni convogliato fondi alla casta della politica (nazionale e locale), hanno garantito una spesa clientelare nel settore pubblico (senza riscontri di produttività ) e al Sud (creando un esercito di persone che vive di assistenza pubblica), hanno ridotto le imprese pubbliche e, molte di quelle private, attraverso sussidi e aiuti all’occupazione in imprese decotte, a pozzi senza fondo. La questione che i nostri creditori naturalmente si pongono quindi è se siano cambiate queste istituzioni. Possiamo garantire ai mercati, ai tedeschi e ai finlandesi, e a noi stessi, che il futuro sarà  diverso? Che dopo l’emergenza avremo una struttura istituzionale in grado di controllare la spesa e il debito? Purtroppo, è chiaro a tutti che queste sono domande retoriche; nulla di sostanziale sta cambiando nella struttura istituzionale del Paese. Allora è chiaro in che senso il rigore imposto dal governo Monti al Paese non è sufficiente. È come se il governo avesse chiesto al Paese di trattenere il fiato per un po’, per fingere una pancia piatta: non può durare e non inganna nessuno.
Incidere sulle istituzioni fondamentali del Paese è ovviamente un compito arduo che richiede tempo. Monti è certamente uno statista ma non è Superman. Il modo di uscire dall’impasse è quindi di operare in tempi rapidi azioni che segnalino un cambiamento di direzione irreversibile (o almeno difficilmente reversibile). Questo è un tema che richiede più tempo e spazio, su cui sarà  necessario tornare. Ma un esempio, per quanto di poca rilevanza in sé, credo possa dare l’idea di cosa si intende per cambiamento di direzione irreversibile: un nuovo presidente Rai, per quanto valido, dura una breve stagione; una Rai privatizzata, invece, è per sempre.


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