I dolori di un bambino a testa in giù

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Prendete una grande famiglia della buona borghesia lombarda, colta, eccentrica, anche piuttosto comunista e basagliana, una madre amorevole e un padre un po’ sognatore, due fratelli a proprio agio nel mondo e una grande casa che chiaramente fa capire che loro, la famiglia Sepe, sono la più ricca dell’immaginaria contea di Loviate. Poi prendete un ragazzino con una sensibilità  piuttosto acuta, timido, un po’ imbranato, però anche capace di manifestare su una certa questione una volontà  d’acciaio: tipo giurare a se stesso all’età  di cinque anni che mai, mai, per nessun motivo al mondo lui seguirà  quella sottile inclinazione che già  sente dentro, che lo porta a stringere al petto la Barbie Malibu, che lo porta a truccarsi coi cosmetici della zia Nadine, la quale lo aiuta a imbellettarsi di tutto punto, ciglia finte incluse. E gli mette poi anche vari giri di perle intorno al collo, lunghe lunghe che arrivano giù fino alle ginocchia del piccolo Martino. Così, questa simpatica zia sudanese, nera come la notte, un lungo vestito di seta e un cappello di paglia a tesa larghissima, enormi occhiali Dior color rosso fiamma e il nipotino Martino truccato e con le sue perle, se ne vanno in centro a prendere un gelato. Martino lui quel giorno si sente proprio incantevole, quasi alla pari col suo ideale di bellezza Shirley Temple. Ma poi ci sono gli sguardi d’orrore che i passanti lombardi lanciano al duo che non confermano la felicità  che il piccolo sente dentro, ma rimandano anzi un sottile senso di disagio e confusione che culmina in gelateria con le due vecchine che esclamano: «Che disgrazia, così piccolo, già  invertito!».
E anche se l’anticonformista zia Nadine risponderà  subito: Strronze, fatevi gli affarri vostrri, una bombetta di vergogna, malinconia e confusione è sganciata nell’animuccia del piccolo Martino. E già , perché anche se sei bambino registri tutto lo stesso, registri il disprezzo e il disgusto degli adulti, la rabbia e la tristezza negli occhi di chi ti vuole bene e sta dalla tua parte. E poi a sentirsi chiamare invertiti a quell’età  ci si sente proprio strani, tipo con l’impressione di essere a testa in giù.
Così la decisione è presa, si va diritti in camera e si sacrifica l’amata Barbie Malibu. La si afferra per il nastrino di raso rosa, con la camicetta plissé che si stropiccia, la si porta in giardino sul bordo dello stagno delle carpe, si dà  un lungo addio a lei e ai suoi eleganti pantaloni palazzo, ai grandi occhiali rosa, le si carezzano i capelli per l’ultima volta e dopo aver pronunciato un grande giuramento solenne : «Anche se godrò di meno non sarò mai un omosessuale», la si scaglia giù nello stagno, lontano lontano, con le carpe che le mordono la faccia.
Così, nella storia raccontata in questo suo primo romanzo, Goditi il problema, pubblicato da Rizzoli (pp. 300, euro 17), Sebastiano Mauri – milanese, classe 1972 – ci dice che ci vorranno molti anni al suo Martino per recuperare se stesso. Per recuperare una timida e poi orgogliosa affermazione della propria diversità . Ci vorrà  una fuga a New York fatta a vent’anni dove a partire da un risveglio in un letto sconosciuto in un quartiere sconosciuto, in mezzo a un uomo e una donna che non ricorda di aver mai visto prima, comincia a raccontare a se stesso tutti i vari naufragi sentimentali della sua giovane vita. Perché è arrivato fin lì? Che ci fa lì? Perché una nuova disfatta sentimentale? Prima con la fidanzatina di tutto il periodo liceale, poi con la famosa top model che tutti desiderano e anche col bell’attore sudamericano Alejo…
La sua vita che gli appare come una sequenza di disfatte che lo avvicinano ai vari giovani Werther e giovani Ortis e giovani Holden di ogni letteratura è la storia dell’essere delicato che trova modo di sopravvivere non tanto costruendosi paradisi artificiali ma tendendo a colpevolezzarsi e precipitando in stagni di sofferenza. Fino ad arrivare a trovare una chiave personale e intima per raccontare certi momenti, certe delusioni, certi approcci e certe speranze segrete… e c’è anche un happy end, come a dire che nonostante tutto gli incontri d’amore esistono, anche se l’altro normalmente non corrisponde ai nostri slanci, anche se gli altri se ne vanno o si vergognano di essere quello che sono o si sposano e si dimenticano di noi. Ma Martino resta aperto alla speranza, alla possibilità  e sembra volerlo raccontare, anzi urlare ai ragazzi che hanno vissuto e vivono quello che ha vissuto lui, «I’m human, and I need to be loved».


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