Giovanna Marmo, voci sulla soglia tra veglia e sonno

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Cosa succede quando si dorme, ce lo spiegano le neuroscienze. Ma quello che può fare solo la poesia è dare una voce propria ai dormienti, oppure passare dalla parte del sonno, e provare a interrogare il senso, come guardando da un negativo fotografico, della stessa vita diurna e delle cose che vi accadono: compreso il sonno, evidentemente (e la morte, in stretta interrelazione). 
Ecco che cosa fa infatti un libro piccolo e prezioso (del resto mega biblà­on mega kakà³n, dicevano gli alessandrini: e condividiamo) come La testa capovolta di Giovanna Marmo (d’if, 2012, pp. 40, euro 12): pone delle domande (a chi?), interroga (qualcuno), con una voce che sembra non appartenere a un vero soggetto enunciante, comunque depersonalizzata se non impersonale, e che si manifesta senza corpo com’è in mezzo a una serie di oggetti (soprattutto la sedia semovente, elemento ritornante e particolarmente unheimlich di questa raccolta) e di non meglio identificate presenze umane (l’indeterminato «tu» dell’allocuzione), lasciandosi a propria volta interrogare dai revenant («L’uomo sepolto è tornato»). 
In questa zona tra l’incursione catabatica e l’ibridazione al confine, le parole chiave sono ancora e non di rado leopardiane: il ritorno, per l’appunto, e la memoria o la dimenticanza («l’idea di avere/ in me la memoria/ di un altro/ mi cancella/ sotto la pioggia»), mentre quello che Marmo dosa perfettamente è, in un ambito sovraesposto all’elegia ovvero al tragico, il pathos dell’assenza o del distacco: ci sono i bianchi tipografici e non altro a definire di cosa si possa trattare («Hai freddo? Freddo»: segue pausa). 
Chiunque stia interrogando, questa voce, si tratti di amanti-dormienti («Mi tieni con te?») o di dormienti-morti, lo fa con la calma dell’attraversante: di colui che, dalla soglia e soltanto da lì, può sapere e dichiarare che «la morte non fa male, perché dormiamo» (così le mummie leopardiane del Ruysch non si erano accorte del trapasso, al modo in cui non ci si accorge di abbandonarsi al sonno nel fluire non traumatico in cui ciò avviene). La massima epicurea della netta alternanza fra stati («quando ci siamo noi non c’è la morte») viene qui parzialmente rivista e superata dal nuovo topos dello scivolamento o del raptus («Ho sonno/ lasciami andare/ qualcosa credo/ mi chiami») anche in virtù della preliminare rinuncia a qualunque appiglio temporale (è nell’indeterminatezza o nell’iperbole dei deittici e dei cronotopi che questa drammaturgia dell’oneiros si svolge: «Dormono i due./Sospesi su tonnellate/ di acciaio, colpiti da/ duemila onde»; oppure: «Come spiegare? Esco»). E dove gli esseri umani si smembrano o si «cancellano», le cose che dovrebbero contornarne la presenza, viceversa, si animano: oltre alla sedia, la coperta, la pioggia, i capelli, la casa che vola (come nelle precedenti favole iper-reali di Marmo). 
Ripensando a tutte le sterili discussioni che hanno ridotto negli anni passati la poesia di autori donne alla (sola) poesia del corpo, o alla vocalità -performativa (e strepitante), questa nuova raccolta di Marmo spariglierà  le carte: perché non è poesia di pancia (meno che mai di utero), ma tutta di testa, sebbene capovolta.


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