Giordania, la vita precaria dei profughi della guerra siriana

by Editore | 25 Luglio 2012 9:00

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AMMAN – Firas, architetto di Damasco è appena arrivato ad Amman: «Mercoledì il conflitto è arrivato nelle strade della città . Spari ovunque, finché l’esercito non ha cominciato a bombardare alcuni quartieri in mano all’esercito libero siriano dal monte che sovrasta la città . Sono fuggito subito, ma la strada per Amman era chiusa, dopo un lungo giro sono arrivato al confine e da lì attraverso i buchi nella rete mi sono messo in salvo in Giordania». Dall’autunno del 2011 nel nord della Giordania arrivano migliaia di siriani. All’inizio l’accoglienza è stata informale attraverso le reti familiari. Poi sono stati creati dei centri dal governo, dai quali si esce solo con uno sponsor giordano.
Ma in questi giorni, in cui infiamma il conflitto in Siria, i numeri dei rifugiati sono aumentati vertiginosamente: 34.000 secondo le Nazioni Unite, che censiscono solo coloro che si registrano; circa 100.000 secondo le Ong giordane ed internazionali. Nei centri e nei primi campi allestiti, tra cui anche uno stadio solo per uomini, la situazione è già  difficile. Emergono i rischi di ogni emergenza: violenze sulle donne, sfruttamento, episodi di tratta con alcuni matrimoni forzati. Fuori dai centri, tutti i rifugiati hanno problemi di sussistenza: casa e lavoro innanzitutto. Per fortuna, rispetto all’accoglienza riservata ai rifugiati iracheni nel 2006, il governo giordano ha scelto di offrire cure mediche gratuite ai siriani e di aprire le scuole ai bambini, anche se non raggiungendo tutti. E con buoni esempi, come il programma di classi di recupero, in corso in questi giorni, per tutti i minori che con la fuga hanno perso l’anno scolastico.
Ma l’aumento dei rifugiati in questi giorni rischia di far saltare il precario processo di accoglienza esistente. Il sistema degli sponsor ha sinora garantito che i siriani stessero poche settimane nei centri e poi ne uscissero, usufruendo dell’assistenza delle Ong e delle strutture pubbliche. Ora invece le autorità  stanno preparando dei campi profughi che potrebbero essere chiusi e sorvegliati dalle forze di polizia. Luoghi dove si rischia che si moltiplichino episodi di violenza e sfruttamento. E’ in costruzione un campo che potrà  ospitare circa 150.000 persone, in pieno deserto. Alcune Ong giordane hanno già  espresso forti perplessità  su questa operazione che rischia di creare dei ghetti.
Un Ponte per… con la Jordanian Women Union sta lavorando ormai da gennaio per i rifugiati, con particolare attenzione alle donne e ai bambini. Attraverso un servizio psicologico e legale vengono identificati i casi di violenze subite in Siria o durante la fuga, per poi attivare un sistema di protezione che prevede la fuga in case protette per le donne a rischio. Quattro centri medici forniscono quotidianamente cure di base e indirizzano le persone verso le strutture sanitarie. A oggi si sono rivolte ai centri centinaia di persone, non tutte per casi gravi ma sempre bisognose di una prima assistenza. E tutto il lavoro è andato avanti con pochi fondi del governo svizzero, molto volontariato e qualche donazione privata. 
Troppo poco rispetto all’egemonia degli aiuti garantiti dalle moschee e dai Paesi del Golfo. Mentre il Ministero degli esteri italiano ha scelto di allestire con l’esercito giordano un ospedale al confine e di sostenere con dei kit medici le Nazioni Unite, che lamentano in ogni caso la scarsezza delle risorse: il piano regionale di emergenza è finora finanziato solo al 21,4%. Ed esistono, come sempre, situazioni di enorme vulnerabilità  come quella dei palestinesi siriani ai quali non è permesso uscire dalla Siria, o che vengono chiusi, senza possibilità  di uscirne, in centri al confine. 
I siriani incontrati raccontano che non vogliono rimanere in Giordania, o negli altri paesi confinanti, e vorrebbero rientrare al più presto in patria. La logica dei campi potrebbe deteriorare la situazione e l’assenza di aiuti rischia di far esplodere anche i paesi confinanti, in primo luogo il Libano. Oltre la retorica dei summit, oggi la comunità  internazionale sembra più interessata a sostenere le parti armate nel conflitto siriano che l’emergenza. 
* www.unponteper.it

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