Erri De Luca

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ROMA- L’appuntamento è lungo la via Braccianese, stazione di servizio. Erri De Luca mi aspetta e fa da staffetta fino a casa sua, in campagna. Ci sediamo in penombra, al tavolo della cucina, la stessa cornice del dialogo immaginario tra lui e sua madre (interpretata da Isa Danieli) nel corto Di là  dal vetro. Un auspicio. Parla con brevi monologhi, farciti di immagini vibranti e di quei paradossi che tanto lo fanno apprezzare, mentre lo sguardo chiaro si fa spazio nella rete di rughe che lo raccontano. Autore di innumerevoli libri tradotti in mezza Europa, ha pubblicato il suo primo romanzo, Non ora, non qui nel 1989 a quasi quarant’anni, mentre il più recente, Il torto del soldato, ha scalato come sempre le classifiche. Ha vinto il premio France Culture per Aceto, arcobaleno, il Premio Laure Bataillon per
Tre Cavalli e il Femina Etranger per Montedidio.
Dal 1999 è scrittore a tempo pieno; prima e per un quarto di secolo è stato operaio, manovale, facchino, autista di convogli umanitari e altro ancora. Mestieri svolti di giorno, sempre scrivendo la sera, (il suo «tempo festivo»), a mano e sulle ginocchia, come fa ancora adesso, su quaderni neri e soltanto sulla pagina di destra, lasciando la sinistra bianca per le correzioni, rare. «O, più spesso, per aggiungere, quando rileggo il giorno dopo, per darmi l’abbrivio a continuare ». Scrittore, e ora anche sceneggiatore, sul set in Valdifassa. «Un’intrusione, un cortometraggio tratto daIl turno di notte lo fanno le stelle, che Feltrinelli ha pubblicato solo in ebook un anno fa. Una storia che ha trovato una società  di produzione americana che, a sua volta, ha ottenuto dei soldi in Trentino». Nastassja Kinski, Julian Sands ed Enrico Loverso, il cast e Edoardo Ponti, il figlio di Sofia Loren e Carlo Ponti, il regista. «È la storia di due persone che si incontrano in ospedale, in un reparto di terapia intensiva. Stanno aspettando uno il trapianto e l’altra la sostituzione di una valvola e, intanto, decidono che, se tutto andrà  bene, andranno a scalare la montagna. Gli interventi riescono e loro celebrano il voto». C’è un frammento di memoria? «Io racconto solo fatti realmente accaduti. Prima, li devo dimenticare e poi, ogni tanto, quando emerge un dettaglio, un pezzettino, una reliquia di quello che mi è passato attraverso il corpo, allora scrivo. E così è stato per
Il turno di notte lo fanno le stelle.
Avevo sentito una storia di scalatori e io stesso, qualche anno fa, sono passato attraverso un triplo infarto; mi si fermò il cuore più volte, mi misero dei divaricatori e, due mesi dopo, ero già  in montagna, a scalare». Il corto sarà  accompagnato da un documentario sulla donazione degli organi, Conversazioni all’aria aperta. «Lo giriamo negli stessi giorni, stessa produzione. Intervisto persone che hanno avuto questo tipo di esperienze… ». Sorride e minimizza: «Intrusioni da pensionato».
Ma è seguendo il filo rosso della scrittura («A undici anni inventavo favolette per bambini sugli animali, tipo i racconti di Fedro che leggevamo a scuola») che meglio si svela. Da quando a Napoli, «il centro del Mediterraneo » dove è nato, passava ore nello stanzino di casa sua in cui il padre teneva i suoi tanti libri. «Li amavo ancora prima di sapere leggere e scrivere, amavo quel materiale eroico, compatto, mentre i giocattoli non me li ricordo. E poi quello stanzino era l’unico posto in cui c’era silenzio. Mi piaceva. È che, forse, sono nato a Napoli per sbaglio; non sono un tipo da vicolo, piuttosto da fiordo. Da Napoli sono partito a diciotto anni, da quella città  che aveva caratteristiche del sud del mondo: alta mortalità  infantile e bambini che andavano a lavorare invece che a scuola. Ho memoria di una città  capitale della sesta flotta d’America, il che comportava che fosse il più grande
bordello del Mediterraneo… E io, marmocchio com’ero, leggevo i libri e farlo mi dava una sensazione di onnipotenza. Grazie a loro imparai, da subito, come erano fatti gli adulti… inconsistenti. E ho perduto il rispetto nei confronti dell’autorità ».
Smentisce che quella «strafottenza» possa aver avuto una parte nelle sue scelte politiche degli anni Settanta. Lo dice a modo suo: «L’appartenenza all’ultima generazione rivoluzionaria del Novecento è dipesa da un senso di giustizia, sentimento che in me si era formato, dolorosamente, a Napoli da ragazzino, nel posto dove abitavo. Io avevo il privilegio, magari moderato, di andare a scuola e di mangiare due volte al giorno. Mentre altri miei coetanei non avevano niente». Sottolinea la frase “generazione rivoluzionaria”. «Sì, perché una cosa è la parola rivoluzionario e un’altra è rivoluzione… quando non ti riesce la rivoluzione, finisci
carcerato. E la mia generazione è stata quella più incarcerata per motivi politici di tutta la storia d’Italia, un record ». E il terrorismo? I tanti giovani entrati in clandestinità ? «Io chiamo terrorismo il bombardamento aereo di una città , con cui si uccidono e si terrorizzano persone innocenti. Chiamo così i fatti rimasti insoluti, i cui responsabili sono stati coperti dalla pubblica autorità ». E la lotta armata? Lui, negli anni Settanta responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua, quando l’organizzazione si sciolse nel ’76, la rifiutò. Ma non fa sconti: «Fu solo per claustrofobia, per un’obiezione minore… io ero un militante pubblico, avevo fatto attività  nelle piazze, e la clandestinità  e il resto erano incompatibili con il mio bisogno di ossigeno politico».
Erri De Luca ragazzo. «A Napoli, ho frequentato il liceo fino alla maturità , poi mi sono trovato di fronte alle cose del mondo. Non le ho scelte, sono state loro a convocarmi». Anche la montagna? «Ho una foto di me bambino, a un anno e mezzo, con mamma e papà . Mio padre era stato nella fanteria alpina e, da quell’esperienza dannata di partecipazione alla guerra, si era portato dietro un sentimento di gratitudine per la montagna, quasi l’avesse salvato. In seguito, da operaio, in montagna ci sono andato in vacanza, era il posto più economico. I mestieri operai li cominciai nel ’76 a Roma in cantiere, poi a Torino alla Fiat, ai Grandi motori, dove rimasi fino all’autunno del 1980, dopo i famosi 37 giorni. Poi la Francia e ancora cantieri. Erano gli anni dei pentiti… io non ho avuto storie con loro, ma mi allontanai per igiene personale. A Parigi sono rimasto fino alla fine del 1982, e poi sono andato in Africa, in Tanzania, da volontario non credente senza paga, con un’organizzazione cattolica che montava pale a vento. Lì mi ammalai di malaria e dissenteria, e mi rispedirono al mittente. In seguito trovai lavoro a Sigonella in una ditta italiana che lavorava per gli americani. Facevo il facchino, carico e scarico degli aerei. Poi ancora un cantiere a Milano finché, nel 1988 a Roma, una cooperativa formata da ex compagni di Lotta continua mi prese a giornata. Ci sono rimasto fino al 1996, ero manovale, sturavo le fogne…».
E la scrittura? «Fino ad allora avevo sempre continuato a scrivere ma, prima di pubblicare, ho buttato via tante cose. Scrivere per me era il contrario di lavorare e, alla fine della giornata, mi ripagava di tutto». Intanto imparava l’ebraico antico; l’occasione fu la Bibbia, la trasmissione orale per eccellenza. «Una mattina mi capitò di leggere qualche pagina e mi piacque, era una scrittura intransitiva, un verbale di una divinità  e basta. E io volevo capire quella potenza attraverso la lingua originale. Adesso, ogni giornata la comincio leggendo in ebraico antico un capitolo della scrittura sacra. È un nutrimento quotidiano, come andare a fare una passeggiata nel deserto, come il rapporto diretto con la montagna». Questo accadeva quasi trent’anni fa. «Poi ho aggiunto l’yiddish e dopo ancora il russo, lo sto ancora studiando, per leggere le poesie. Decisi di impararlo quando ero in Bosnia, dal 1993 al ’97, mentre ero autista di convogli». Invece, Belgrado? «Ci andai nel ’99 quando la Nato bombardava la Serbia. Per disertare dai bombardieri di una città  non scendevo neanche nei rifugi. Quando urlavano le sirene d’allarme restavo in strada e, la notte, all’ottavo piano di un albergo senza ascensore. Ma di quei giorni non ho raccontato niente, forse perché non sono mai riuscito a dimenticarli».
Progetti? «A novembre uscirà  per Feltrinelli La notte dei numeri, una commedia napoletana sulla tombola dei bambini, ricordi di molti capodanni in attesa della mezzanotte. Adesso non sto scrivendo, ma se mi viene il genio, così si dice a Napoli e genio vuol dire solo voglia e non altro, se mi viene il genio… allora mi rimetto a scrivere. Come sempre».


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