by Editore | 7 Luglio 2012 15:36
È fine giugno ma al Southbank centre ci sono 20 gradi, piacevolissimi dopo i 38 di Firenze: è così che comincia la mia avventura londinese con una ventata fresca, non solo metaforica, dopo il pesantissimo clima italiano. Mi sono persa l’evento inaugurale di lancio di segnalibri poetici dall’elicottero ma l’atmosfera è rimasta elettrica anche alla fine del terzo giorno quando a tarda sera arrivo finalmente all’albergo-ostello che ci ospita tutti. Il clima è alcolico e ritrovo poeti conosciuti ad altri festival, amici che alla fine vedo solo in luoghi a dir poco inusuali come Dubai o St Andrews.
Venerdì mattina, sentendomi in colpa per essere potuta arrivare solo il giorno prima, arrivo praticamente all’alba al Festival Village: gli organizzatori hanno chiesto a dei giovani artisti e designer di creare uno spazio dove i poeti possano incontrarsi, mangiare insieme i pasti a un lungo tavolo, giocare a calcetto e bere (cosa che tutti fanno con gioia e a tutte le ore). Lì raccolgo il materiale, stringo la mano alle persone con le quali ho comunicato via email per mesi: da quel momento in poi (con solo una fuga alla Hayward Gallery che, molto appropriatamente, propone la mostra Invisible: art about the unseen, tema che ha così tanto in comune con la pratica poetica) entro in un vortice poetico, saltando da una lettura a un’altra e facendo io stessa due laboratori, una lettura e partecipando ad un panel sulla situazione della poesia femminile, tutto nell’arco di 48 ore.
È una overdose lirica tra voci che escono dagli altoparlanti per invadere la strada, poesie stampate sui muri degli edifici e su dei pannelli lungo il Tamigi. Si può ascoltare Seamus Heaney leggere la sua famosissima Digging davanti a un teatro straboccante e mezz’ora dopo sentire Karlo Mila, poetessa di Tonga, che recita «Some days/I have been/on dry land/for too long» in una piccola stanza che dà sul fiume. E qui introduco una nota dolente in questo bell’arazzo di colori e suoni: gli spazi più belli e prestigiosi, le fasce orarie più accessibili sono, guarda caso, riservati a maschi bianchi di lingua (prevalentemente) anglosassone. In questi luoghi la lingua è spesso il «festivalese»: si ascoltano poesie d’occasione su moscerini e bustine del tè, si dilettano le orecchie degli ascoltatori con finezze musicali e arguzie compiaciute e, anche quando si proviene da culture completamente altre, si è imparato ad adeguarsi a questo modello pur di riuscire ad essere pubblicati nelle riviste che contano davvero, ovvero quelle americane ed inglesi (producendo squisiti esempi di quella poesia consolatoria che tanto aborro). Ho ascoltato un poeta balcanico che ha addirittura imparato a leggere come leggono il 90% dei poeti americani oltre che a scrivere come loro! Che ne è stato delle specificità ? Se è vero che tutti sentiamo più o meno le stesse cose fin dall’inizio del mondo è anche vero che la lingua – niente di nuovo, lo so – è la manifestazione della nostra cultura e non è quindi separabile da certe immagini e associazioni, riferimenti e metafore. Se fare poesia è un modo di fare politica, di sporgersi verso l’altro alla ricerca di un possibile dialogo, se è poggiare l’orecchio al suolo per capire cosa è passato e cosa sta arrivando, a cosa mi serve una poesia intricata e raffinata come un pizzo ma incapace di offrirmi una nuova pelle per andare nel mondo? (E non sto parlando dello sperimentare con lingue diverse dalla propria, cosa che ho fatto io stessa: sto parlando di indossare una maschera poetica che appiattisce i lineamenti e la voce).
Non fraintendetemi: sono felice e grata di aver partecipato a questo evento davvero unico per dimensioni e varietà delle manifestazioni ma mi dispiace aver avuto conferma di una sensazione che avevo già avuto altrove. Rispetto ad altre realtà , anche nostrane, Parnassus ha comunque alla fine brillato per democrazia, a cominciare dalla sua genesi: Simon Armitage, poeta artist in residence a Southbank e mente dietro il progetto, il 31 maggio 2011 si è presentato alla Bbc dove ha fatto un appello pubblico perché gli venissero segnalati poeti da tutto il mondo e già il giorno successivo le proposte erano più di un centinaio (tale livello di democrazia in un incontro di queste proporzioni sarebbe ovviamente inconcepibile in Italia).
Fedele alla sua visione del poeta come intellettuale che ha delle responsabilità etiche, il festival non è stato solo una vetrina per poter sfoggiare le proprie capacità versificatorie ma ha creato le condizioni perché si potesse discutere con i poeti, fare laboratori con loro o affrontare temi come la crisi globale e la poesia, poesia femminile attraverso i continenti o poesia ed esilio (ma non è mancato il karaoke!) e anche questo, purtroppo, non è proprio il modo nel quale si fanno le cose qui da noi (quanto amiamo gli «eventi» e le «star» in questa parte di mondo!).
È domenica sera e la festa è finita: domattina ripartiremo e ci salutiamo ballando reggae e bevendo Corona. Nessuno ha davvero voglia di tornare a casa e prolunghiamo gli addii sperando di rivederci presto in altri festival per continuare il nostro infinito racconto poetico: «parola-fettuccia che fa orlo al silenzio».
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