E sulla presunta trattativa dopo le sfide tra Procure scatta il rebus competenza

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ROMA — Uno degli imputati, l’ex capitano dei carabinieri De Donno, aveva già  giocato quella carta dopo aver saputo di essere inquisito per la cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Sostenne che non erano i pubblici ministeri di Palermo a poter indagare, poiché il presunto «patto» con l’ex sindaco mafioso Ciancimino sarebbe stato siglato a Roma. Dunque la competenza era della Procura della capitale.
Gli andò male. La Procura generale della Cassazione, infatti, stabilì che avevano ragione i pm siciliani, giacché nella contestazione c’era l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa Cosa Nostra, che ha notoriamente il suo centro decisionale a Palermo. Forte di questo «radicamento» l’inchiesta è andata avanti, fino alla recente richiesta di rinvio a giudizio. La fissazione della prima udienza davanti al giudice che dovrà  decidere il destino dei dodici imputati è imminente, se ne parlerà  alla fine di ottobre. Ed è molto probabile che una delle questioni preliminari che porranno gli avvocati difensori sia nuovamente quella della competenza. Perché dalla decisione della Procura generale è passato molto tempo, sono state fatte altre indagini e nell’ultima formulazione dei capi d’accusa si parla di reati commessi «in Palermo, Roma e altrove».
Qualcuno potrebbe chiedere nuovamente di spostare il processo nella capitale; qualcun altro addirittura al tribunale dei ministri, poiché se pure non ci sono ex rappresentanti di governo imputati di reati commessi all’epoca della trattativa o nell’esercizio delle loro funzioni, si discute della decisione politica presa da un ministro: la mancata revoca di oltre trecento decreti di «carcere duro» per altrettanti detenuti. Altri ancora potrebbero chiedere di andare a Caltanissetta, perché se il ricatto innescato dai boss era di proseguire con la «strategia di violento attacco frontale alle istituzioni», si realizzò con le stragi di Capaci e via D’Amelio; e su quegli attentati è competente la Procura nissena, per via del coinvolgimento di magistrati in servizio a Palermo. Infine c’è l’ipotesi di Firenze, qualora si ipotizzasse che la minaccia mafiosa prese corpo dopo l’attentato a Borsellino, con le bombe del 1993. 
Di questo si discusse tra le stesse Procure interessate, lo scorso anno, quando esplosero i contrasti sulla conduzione delle indagini collegate tra i pm di Palermo e Caltanissetta. A proposito della gestione del testimone-indagato Massimo Ciancimino, ma non solo. Ne riferì il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, nella sua audizione davanti alla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, il 17 maggio 2011. Ciancimino jr era appena stato arrestato su ordine degli inquirenti palermitani, ed era venuto alla luce un conflitto che covava da alcuni mesi, con i pm nisseni che chiedevano gli atti e i palermitani che glieli negavano. Finché non intervenne un «accordo», sancito nella riunione sollecitata da Grasso. 
Lo stesso superprocuratore, tuttavia, ha rivelato al Csm: «Accordo è una parola non corretta, nel senso che Caltanissetta minacciava il contrasto di competenza, se il collegamento non fosse stato efficace, adeguato. Quindi, o si rinnovava un collegamento corretto, così come imponevano la prassi e le direttive che erano state date, oppure si faceva da parte di Caltanissetta il contrasto di competenza». Ma Grasso parlò anche di un’altra possibilità . «L’ipotesi prospettata dal procuratore Lari (capo degli inquirenti di Caltanissetta, ndr) era quella di estraniare la Procura di Palermo dalle indagini sulla trattativa, perché sosteneva che se le indagini si riferivano a prima delle stragi riguardavano Caltanissetta, essendo le stragi di Falcone e Borsellino; se si riferivano a dopo riguardavano Firenze, e quindi con tutte le evoluzioni che c’erano state fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano». 
In seguito le questioni si appianarono, almeno sul piano formale, perché lo scambio di atti si realizzò e la Procura di Palermo accettò le direttive impartite da Grasso. Il quale però volle precisare: «Se posso dare una definizione che renda il concetto, io userei più che “pace” il termine “tregua armata”, proprio perché sono due posizioni ontologicamente ormai diverse e radicalizzate». Anche sulla base di queste premesse, in seguito il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio ipotizzò un ulteriore intervento coordinatore di Grasso, nelle ormai famose telefonate con l’ex ministro Mancino. 
Alla rivendicazione della competenza sull’indagine il procuratore di Caltanissetta ha rinunciato, ma ora che nel capo d’imputazione sono comparse le stragi del ’92 e del ’93 — a fianco dell’omicidio Lima, avvenuto in precedenza a Palermo — la questione su quale giudice debba giudicare si riproporrà  fin dall’udienza preliminare prevista per l’autunno.


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Gentile Direttore,
posso comprendere che l’idea di «riscrivere», o di contribuire a riscrivere, «la storia recente del nostro Paese» possa sedurre grandemente un brillante pubblicista come Alan Friedman.

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