by Editore | 31 Luglio 2012 10:26
BANGKOK – «La cosa che più colpisce, è che la crisi dell’India viene sentenziata dagli stessi che hanno creato il boom». Satya Sivaraman, consulente di ong e fondazioni, attivista sociale e analista politico, osserva il suo enorme Paese dai piccoli e spesso inavvertibili cambiamenti che accadono attorno a sé. «All’inizio della liberalizzazione dell’economia indiana negli anni ‘90 — ricorda — non c’erano nemmeno i soldi per acquistare il petrolio. L’attuale premier Manmohan Singh era ministro delle Finanze, 20 anni fa esatti, e grazie ai suoi legami con i templi del capitale mondiale, gli fu affidata l’apertura dei mercati. Quando è diventato primo ministro del suo Paese, le richieste dei referenti stranieri crescevano, ma Singh — che non è un politico — diventava sempre più dipendente dai numerosi partiti che formano la sua coalizione».
Della quale la mente è però Sonia Gandhi.
«Lei deve tenere le fila di molti potentati politici locali dal nord al sud, in grado di condizionare scelte nazionali e misure economiche. Le va dato atto di aver saputo inserire nell’agenda del governo le maggiori misure di salvaguardia delle fasce più deboli, come la legge sul “cibo sicuro”. Ma poi bisogna metterle in pratica, e qui si arriva al nodo cruciale: la struttura stessa della società indiana è basata sull’attitudine egocentrica e dominante delle caste più alte che detengono i ministeri, o formano il 90 per cento delle categorie dei dirigenti d’azienda, dei giornalisti, degli stessi funzionari addetti alla distribuzione del cibo per i poveri, che si perde per strada venduto al mercato nero o perfino legalmente».
L’apertura dell’economia ha però portato benefici più estesi.
«Da un punto di vista del prodotto interno lordo certamente. Ma vediamo cosa accade. Prima dell’apertura il tasso di crescita variava dal 4 al 6 per cento annuo, e una buona fetta del budget andava a sostenere l’agricoltura per tentare di ridurre il tasso di povertà . Poi è subentrato il capitale internazionale e il tasso è balzato a 8, 9, 10, prima di ridiscendere ai livelli di oggi. Ma come mai? La mia tesi è che il pallone è stato gonfiato troppo artificialmente e si sta ora sgonfiando, perché se andiamo a vedere i dati, a fronte di una crescita del Pil, ha corrisposto una riduzione del consumo pro-capite di grano. E’ stata l’Oms a dire che il 45 per cento degli indiani adulti soffre di malnutrizione e — secondo l’Unicef — 2 milioni e mezzo di bambini muoiono ogni anno per malattie legate alla mancanza di cibo».
Eppure l’India è uno dei Paesi con più miliardari sul pianeta.
«Infatti la contraddizione di un Continente che venera dèi guerrieri e fa mangiare l’immondizia alle vacche sacre, sta nella mancanza di compassione. Mi è difficile dirlo da indiano, ma basta guardarsi attorno…».
Una crescita per pochi dunque.
«Quando si parte da un dato iniziale basso come quello degli anni ‘80, è facile stupirsi delle impennate statistiche. Ma come si è distribuito il Pil? Con l’eccitazione dei nuovi investitori attratti dagli incentivi — perfino dove al potere erano i comunisti come in Bengala — ogni valore è salito, dai titoli dello stock market a quelli delle case, o dei diritti delle miniere. Ora si assiste alla crisi immobiliare e al calo della Borsa di Mumbai, ma raramente è detto che entrambe erano frutto di speculazioni, che il 70 per cento degli scambi avviene su titoli stranieri, e che evidentemente questa è la fase in cui la finanza internazionale pretende di più dal-l’India, magari un governo che acceleri il processo di privatizzazione. Ma già adesso la corrente nelle città satellite come Gurgaon è privatizzata e costa un occhio, perché si alimenta a diesel coi generatori».
Una situazione senza via d’uscita?
«Per ora il Paese può contare su un enorme mercato interno, che può essere stimolato e regolamentato solo sotto una guida pubblica, per non lasciare ai privati il massimo sfruttamento delle risorse. L’India è anche un Paese di risparmiatori, che investe soprattutto in oro importandone quantità record. Il problema maggiore sarà per quanti si sono adagiati per 20 anni sul modello consumista occidentale, con credit card e auto a rate. Ma fuori dalle città non è cambiato molto, e qui l’impatto sarà meno violento. Sono abituati a vivere col minimo».
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