by Editore | 15 Luglio 2012 12:52
ROMA — Alle cinque del pomeriggio la tessera del Pd gettata via dal delegato gay Aurelio Mancuso giace ancora sul tavolo della presidenza, là dove sedeva Pier Luigi Bersani. Un giornalista si avvicina per uno scatto, un uomo della sicurezza se ne accorge e la prende bruscamente in consegna: «Non posso fargliela fotografare». Sono gli ultimi istanti di un pomeriggio di caos, che ha visto chiudersi tra le polemiche l’Assemblea nazionale del Pd, lacerata dal tema delle nozze omosessuali. Al centro della contestazione Rosy Bindi, accusata dall’area laica di aver guidato i lavori in modo «burocratico e antidemocratico».
Urla da stadio, fischi, boati. La bagarre scoppia al Salone delle Fontane dell’Eur dopo la replica di Bersani e quando già buona parte dei delegati è sulla via di casa. A far discutere sono due documenti sul tema delle unioni civili. Il primo è quello messo nero su bianco, dopo un anno e mezzo di lavori, dal Comitato diritti del Pd guidato dalla presidente Bindi. Al punto 5.5 si parla di «formule di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali» e per la Bindi si tratta di «una linea molto avanzata, un grandissimo risultato». Secondo Paola Concia, Ignazio Marino e gli altri dell’ala laica invece è troppo poco. Il documento passa a larga maggioranza, ma in 38 votano contro. E agli atti restano due ordini del giorno sulle nozze gay. Uno è di Ivan Scalfarotto, l’altro è della Concia e impegna il Pd, sulla scia di Hollande, a «inserire nel suo programma l’estensione dell’istituto del matrimonio civile alle coppie omosessuali».
La guerriglia scoppia quando la vicepresidente Marina Sereni comunica che il «contributo» dell’area laica sulle unioni civili, firmato da Angiolini, Concia, Corsini, Cuperlo, Mancina, Marino e Pollastrini, non sarà messo ai voti perché «in contrasto» con quello già approvato. È il caos. Chi grida «buuu!», chi fischia, chi si scaglia verso la presidenza scandendo «voto, voto»… «Questo partito non riconosce dignità ai gay!», grida uno. «Ci prendete per il c…», agita la sua delega un altro democratico dell’ala sinistra. E una voce dal fondo: «Siete dei marziani, vivete su un altro pianeta». Finché Enrico Fusco, delegato gay della segreteria regionale pugliese, grida nel microfono quel che pensa del documento Bindi: «È antico, arcaico, irrispettoso, offensivo… È un passo indietro, persino Fini è più avanti di noi». Poi scende dal palco, va al tavolo della presidenza e lancia la tessera pd verso un attonito, sgomento Bersani, sul quale piovono, nell’ordine, le tessere degli attivisti gay Andrea Benedino e Aurelio Mancuso.
Quando prende la parola per placare gli animi, il segretario è vistosamente spazientito. «Sentite un attimo — si appella —, per la prima volta il Pd assume un impegno per la regolamentazione giuridica delle unioni omosessuali e io sento dire “me ne vado dal partito”?». E poi, più brusco: «Attenzione, noi siamo il primo partito del Paese, dobbiamo dire con precisione all’Italia che cosa vogliamo. Il Paese non è fatto delle beghe nostre». L’assemblea si scioglie e la Bindi resta a lungo sul palco, nella sala vuota, per convincere i giornalisti delle sue ragioni: «Abbiamo fatto un lavoro eccellente e se non c’è il matrimonio gay è perché la Costituzione non lo consente, ma per la prima volta si indica una strada perché l’Italia sia come gli altri Paesi europei». La presidente del Pd è convinta che la maggioranza degli italiani sia pronta per il riconoscimento delle unioni di fatto ma non per il matrimonio gay: «È così in Francia, in Inghilterra, in Germania…». Le ricordiamo che Paola Concia, la deputata lesbica che guida i ribelli, si è sposata con la sua compagna a Francoforte e Bindi puntualizza: «Non era un matrimonio, ma un istituto che si chiama partnership». Non sarebbe stato più saggio, si chiedono in molti, ammettere al voto il documento della discordia e certificare la minoranza? «Non serve la prova del nove — replica Bindi — perché se solo in 38 votano contro è chiaro che sono minoranza».
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