by Editore | 7 Luglio 2012 16:27
La quinta sezione penale ha reso effettive le condanne: 4 anni per Francesco Gratteri, attuale capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia, 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos all’epoca e oggi capo del reparto analisi dell’Aisi, 3 anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, attuale capo servizio centrale operativo, e 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. Questo è un segno di giustizia, almeno così sembrerebbe.
Detto che le condanne difficilmente saranno detentive, e detto che ci auguriamo che nessuno, neanche il più scellerato, possa finire in quella discarica (dis)umana chiamata carcere, non possiamo che affermare l’auspicio di non vedere mai più questi personaggi in rappresentanza di qualsivoglia corpo o divisa.
Purtroppo però non è così scontato che, negli iter tortuosi della giustizia italiana (quella che tutti vogliono riformare ma che nessuno osa toccare), tra prescrizioni, revisioni, indulti e amnesie procedurali di vario genere, non si possa trovare tra qualche anno qualcuno di questi signori in posizioni di responsabilità e di rilevanza. Difficile dimenticare la parabola dell’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro, parabola dapprima in discesa – con la condanna per induzione a falsa testimonianza – e poi in repentina inversione di tendenza con l’ascesa al posto di sottosegretario a Palazzo Chigi. Se a questo si aggiunge la prescrizione per tutti gli agenti (mai identificati) rei di aver pestato selvaggiamente decine di manifestanti, si delinea subito uno scenario grigio, seppur coperto da un velo rosa.
Scrive Patrizio Gonnella: «In Italia infatti manca il crimine di tortura. Così non è stato possibile imputare ad agenti e funzionari un crimine che prevede una ben diversa sanzione e tempi non così corti di prescrizione. La prescrizione, appunto, ancora una volta impedisce che si abbia piena giustizia. Esistono in Italia due processi penali: il primo è quello nei confronti dei poveri, degli immigrati, dei tossicodipendenti. E’ questo un processo di solito rapido, inesorabile che procede senza garanzie verso la condanna al carcere. Il secondo processo è quello per i colletti bianchi e per gli esponenti delle forze dell’ordine. Nei loro confronti il processo, ricco di garanzie procedurali, va lento verso la morte e verso l’ingiustizia».
E fin qui ci siamo. La questione è, però, irta di spine. In calce a queste roboanti condanne, difatti, si è deciso che il rimborso dei danni provocati a seguito dell’irruzione si avvarrà della recentissima legge 187 del 12 novembre 2010, quella che s’intitola “Misure urgenti in materie di sicurezza”. La suddetta legge infatti, oltre a occuparsi di violenza negli stadi, di violenza terroristica e di criminalità organizzata, ha al suo interno un articolo 2-bis, chiamato “Fondo di solidarietà civile”, che recita così:
A favore delle vittime di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero di manifestazioni di diversa natura è istituito presso il ministero dell’Interno il Fondo di Solidarietà civile. Il fondo è alimentato da somme riscosse per le sanzioni amministrative pecuniarie e da contribuzioni volontarie e lasciti. Il fondo provvede nella misura del 30% all’elargizione di una somma di denaro a titolo di contributo per il ristoro del danno subito a favore delle vittime di reati commessi con l’uso della violenza su persone o cose in occasione di, o a causa di manifestazioni sportive e dei soggetti danneggiati dagli stessi reati.
Traducendo, questo significa che i danni alla scuola Diaz (come tutti i risarcimenti dovuti alla città di Genova dopo quel nefasto G8) non saranno rimborsati dalle trattenute sui salari delle forze di polizia (ad esempio), bensì da “somme riscosse per le sanzioni amministrative pecuniarie e da contribuzioni volontarie e lasciti”. In poche parole, i danni di quei giorni saranno pagati (anche e soprattutto) da noi. C’è poi la parte più inquietante del testo, che coincide col passo “b”: «i risarcimenti saranno versati nella misura del 70% nei confronti delle vittime di azioni delittuose avvenute in occasione o a causa di manifestazioni diverse da quelle di cui alla lettera “a”».
Insomma, il burocratese che inganna e che dà l’idea di una vera e propria normativa “ad poliziam”, normativa che fu già criticata dalla Corte dei Conti quasi due anni fa, all’apertura dell’anno giudiziario 2011.
E qui si apre la parte più dolorosa, quella che riguarda gli imputati “civili” del processo: per intenderci, i manifestanti caricati dai molti poliziotti prescritti. Le condanne d’Appello – che rischiano di essere confermate in Cassazione – qui, sono taglienti: Francesco Puglisi, 15 anni di reclusione; Vincenzo Vecchi, 13 anni; Marina Cugnaschi, 12 anni e 3 mesi; Alberto Funaro, 10 anni; Carlo Arculeo, 8 anni; Luca Finotti, 10 anni e 9 mesi; Antonino Valguarnera, 8 anni; Carlo Cuccomarino, 8 anni; Dario Ursino, 7 anni; Ines Morasca, 6 anni e 6 mesi. Nel complesso, si tratta di un centinaio di anni di carcere, e gli imputati fanno parte di quelle Tute bianche che, mentre manifestavano legittimamente in via Tolemaide, vennero inspiegabilmente caricate dagli uomini del vicequestore di Cuneo, Mario Mondelli.
In conclusione non ci resta da notare che, come al solito, la legge sembra uguale per tutti sulla carta, ma è la realtà a gerarchizzare rigidamente i diritti. I diritti di chi può, e quelli di chi non può, mentre i giornali escono con titoloni da panico: “Diaz: Condannati i vertici di polizia, ora devono lasciare gli incarichi” scrive Repubblica.it; “Diaz, Condannati i vertici della polizia, sentenza terremoto”, fa eco il Corriere. Insomma, undici anni per portare cambiamento e giustizia, in rigorosa applicazione della numerologia. Almeno, così sembra. Perché poi, a leggere bene, l’unico significato nascosto dietro il numero undici è sempre il solito, quello della Forza.
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