by Editore | 25 Luglio 2012 8:50
WASHINGTON – Era l’ultima estate prima del Grande Panico. Era il luglio del 2008, quando il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti raccolse il proprio stato maggiore elettorale a Chicago, e disse loro: «Sono qui per vincere, ma voglio vincere come Barack Obama, non come una caricatura». «Perché — aggiunse — se vincerò, dovrò governare l’America come Barack Obama, non come quella parodia che voi raccontate negli spot».
Quattro anni dopo, di nuovo a 100 giorni dal voto del 6 novembre, il tavolo si è ribaltato. Un candidato può spacciare ogni promessa ed essere se stesso. Un Presidente deve rispondere di quello che ha fatto, ed essere quello che non è riuscito a essere. Per questo il Barack Obama 2.0, nella sua seconda edizione deve puntare tutto su quello che lui “non è”. Non è un avvoltoio della finanza, non è un ideologo con una programma di neo darwinismo sociale, non è un fanatico religioso, non è un antifemminista, non è un Thatcher da operetta, non è anti-gay, non è un nostalgico del suprematismo americano da neo-con, non è un estremista. Non è, in due parole semplici, Mitt Romney. Il suo avversario. Guardare l’Obama di oggi e confrontarlo con quello che demolì McCain e Palin nel 2008 è come guardare il negativo di una fotografia, quando si usavano le pellicole. L’uomo è lo stesso, il fisico, a parte quella brinata di grigio che gli è caduta sui capelli, è intatto. Le bambine Sasha e Malia sono ormai teenager o quasi. Michelle ha retto bene la fatica disumana di essere quella figura di tutto e di niente che si chiama “First Lady”, e anche la vecchia gang dei collaboratori vincenti, Axelrod, Plouffe, Messina il genio dei finanziamenti, si è riformata. La centrale operativa di Randolph Street 130 a Chicago, la città dove Obama divenne Obama, funziona con la stessa spasmodica ferocia che è addirittura costata un infarto fatale a uno staffer di 29, Alex Okrent. Ma al centro della foto, lui, “the man”, è cambiato.
Quarantasei mesi di presidenza, dall’insediamento il 20 gennaio 2009, hanno tolto dal suo mazzo gli assi e i jolly che aveva giocato con tanto successo. La novità di sé è valida ancora per chi lo odia, non più per chi lo ama. Obama è diventato, nella furia divorante dell’informazione 24/7 e nel tritatutto istantaneo della Rete, la storia di ieri. Anche l’estraneità alla cricca washingtoniana non è più spendibile, dopo quattro anni di “dare e avere” nel necessario compromesso fra parlamento e governo.
Il positivo è diventato negativo. Lo slogan resta genericamente incoraggiante, “Forward”, avanti!, non più il “Cambiamento”, e il punto d’attacco è il pericolo che il repubblicano Mitt Romney rappresenta. Essendo ormai certo che i dati macroenomici, dall’occupazione alla crescita generale del prodotto interno, continueranno, se va bene, la propria anemica andatura, che le promesse di pace culminate nel primo “Nobel” preventivo e prematuro si traducono in azioni militari e che guerra e politica estera non sposteranno un voto in novembre, l’Obama “buono” del 2008 è dovuto diventare l’Obama “cattivo” del 2012.
La vecchia regola aurea della politica elettorale americana insegna che, se non puoi vantare il tuo record di amministratore, devi demolire il curriculum del tuo avversario e il primo che riesce a definire l’altro, in negativo, controlla la narrazione elettorale e vince. Romney è un personaggio con abbastanza ombre e reticenze nella propria storia anche fiscale di milionario per non essere una tentazione irresistibile e la macchina elettorale di Obama ha già speso 170 milioni di dollari nel solo mese di giugno per inondare gli stati chiave, come la Virginia, il Michigan, l’Ohio, di spot feroci. Uno spettatore medio di televisione, in Virginia, è esposto a 34 passaggi al giorno di spot anti-Romney.
Ma il rischio di un’offensiva “contro” è sempre altissimo. Il Presidente del “Noi Possiamo” diventa il candidato del “Lui Non Può”, il campione del “meglio” si metamorfizza nel campione del “meno peggio”, più europeo che americano, e accetta la mediocrità . Ma non ha scelta. Nella speranza che Romney si autodistrugga nei dibattiti d’autunno, opporre negatività alla negatività di un partito repubblicano che scommette non sul proprio mediocre e logoro cavallo, ma sull’odio, sul risentimento, sul razzismo, sul fanatismo contro «l’alieno dalla storia e dalle pelle scura», è una strategia che contraddice il bisogno di ottimismo che permea la psicologia collettiva degli elettori americani.
David Plouffe, uno dei massimi strateghi, ha convinto Obama che la sola salvezza non sta più nel conquistare gli “UFG”, come si chiamano nel gergo, gli “Up For Grabs”, gli elettori disponibili, ma nella ricompattazione della propria base. Oggi la dottrina obamiana è non più “economy” ma “demography”, non l’economia, ma la demografia. Dunque i giovani, le donne, il molto immaginario “popolo di Internet”, spesso più mito che realtà , visto che i dati finali dissero che Obama aveva ottenuto dalla rete soltanto un punto percentuale in più di donazioni di quelle che erano arrivate a Bush nel 2004. Poi gli immigrati latinos, naturalmente gli afroamericani, chiamati a salvare l’ampliamento della assicurazione sanitaria scampato alla Corte Suprema, i diritti delle donne, la tolleranza verso gli immigrati, quel tanto, o quel poco, di welfare che sorregge i più poveri, gli universitari senza soldi di famiglia, i piccolissimi imprenditori. Cento giorni, in politica, sono un’era geologica. La grande famiglia americana comincia a occuparsi di elezioni soltanto dopo il 3 settembre, il giorno del rientro a scuola e della fine estate e tutti, in questo 2012, vivono con l’ansia di sapere se, in quel mese, un’altra terribile sorpresa economica e finanziaria, si abbatterà , questa volta dall’Europa, come onda di ritorno su Wall Street. «Avanti!» invoca l’Obama 2.0. «Indietro!» promette Romney. Ma avanti o indietro verso che cosa?
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