Contro la tortura Modifiche Severino inaccettabili

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Non è facile spiegare perché le istituzioni italiane facciano resistenza ogniqualvolta si tenti di criminalizzare la tortura.

 

Non è facile spiegare in termini giuridici perché non si copi fedelmente una definizione presente in un Trattato dell’Onu firmato e ratificato da mezzo mondo ma si tenti di cambiarne parole, contenuti e senso. 
L’unica spiegazione che ci si può dare è anche la più triste, ossia che l’intero apparato statale si trasforma in tali circostanze in un grande corpo unitario che punta alla propria invulnerabilità  e immunità . Lo spirito di corpo ha impedito e impedisce tuttora che in Italia si persegua un delitto considerato crimine contro l’umanità  per il diritto internazionale. 
A differenza dei suoi predecessori l’attuale Guardasigilli è un giurista. Un giurista sa che esiste una norma costituzionale, l’articolo 117, che subordina il diritto nazionale a quello internazionale. Ogni distonia oggi è sanzionabile dalla Corte Costituzionale. E allora perché non affidarsi alla definizione del crimine di tortura presente nella Convenzione Onu entrata in vigore nel 1987 senza fare troppo i legulei? Dopo l’avvio della campagna «Chiamiamola tortura», firmata da migliaia di persone, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva predisposto un testo che riassumeva le varie proposte pendenti. Ci aveva lavorato con determinazione e celerità  il senatore Felice Casson. Il testo a noi suscitava delle perplessità . Le avevamo però reputate superabili in vista dell’obiettivo finale di avere finalmente nel nostro codice il crimine di tortura da utilizzare nei processi. 
La stessa cosa non può però dirsi del nuovo testo, presentato lo scorso 27 giugno, su sollecitazione del ministro della Giustizia. Nella prima parte, ovvero nella descrizione della condotta del torturatore, esso si discosta in modo ampio e ingiustificato rispetto al Trattato Onu contro la tortura. In particolare è inaccettabile che per esservi tortura debbano essere compresenti le sofferenze psichiche e fisiche. Nella definizione Onu affinché si integri il delitto di tortura è sufficiente che siano prodotte le une o le altre, non devono esserci tutti i tipi di sofferenze immaginabili. In questo modo l’umiliazione o l’intimidazione da sole non configurerebbero il reato. Oppure un pestaggio senza ripercussioni psicologiche particolari renderebbe non punibile per tortura il responsabile. Ancora più sorprendente è l’avere aggiunto nella definizione della fattispecie penale la seguente espressione: «non in grado di ricevere aiuto». Il torturato per ottenere giustizia deve essere «non in grado di ricevere aiuto». Non è facile spiegare a uno studioso di diritto cosa tale frase significhi. Il torturando deve essere forse muto e solo mentre subisce le violenze? Oppure deve obbligatoriamente urlare? E se soffre in silenzio non c’è tortura? L’aiutante del torturando, che ben può essere un altro detenuto, è quindi legittimato a reagire? È una frase infelice, priva di senso giuridico, e dalla evidente doppiezza morale. Essa rischia di assicurare copertura legale ai comportamenti violenti e illegittimi di chi ha compiti di custodia e fa pensare ai tentativi di successivo insabbiamento. 
Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia, in senato, aveva detto che prima di codificare il nuovo reato di tortura bisogna vedere se i reati generici ne «coprono» l’ipotesi per poi andare a cercare eventuali buchi, eventuali ambiti non puniti. Ma ciò, come sostiene, Antonio Marchesi, professore di diritto internazionale all’università  di Teramo nonché ex presidente di Amnesty International: «È contrario al senso complessivo della Convenzione Onu. L’insieme dei reati generici, anche nell’ipotesi che non ci fossero ambiti non coperti, non coglierebbe comunque l’essenza della tortura, che è una cosa diversa e più grave della mera somma delle sue componenti».
* presidente di Antigone


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