CHE COSA SIGNIFICA “ACCOGLIENZA”

by Editore | 14 Luglio 2012 11:19

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Le vite imperfette sono le nostre. Certamente la mia. Il saggio userebbe il suo tempo vuoto — mai libero, perché non esiste una cosa come il tempo libero — per cercare di avvicinarsi alla perfezione. Alla sua idea di perfezione. O forse, anzi meglio, al perfezionamento possibile di sé. All’accumulo di conoscenze, che meno sono tecniche e più mi sembrano importanti, quasi necessarie. Preferisco siano gli altri, ad accumulare conoscenze tecniche, e certo, non è sempre stato così, nella mia vita imperfettissima.
L’accoglienza fa parte del processo di perfezionamento di sé. Accogliere i concetti, le idee, i sentimenti, le opinioni persino le sensazioni degli altri fa parte dell’accumulo della conoscenza. Anzi, forse è la conoscenza. Comporta un minimo sforzo concettuale, però, questa accoglienza, e la si può interrompere in qualsiasi momento per tornare felicemente chiusi dentro noi stessi. Basta chiudere il libro, spegnere il computer o lo stereo (scusate l’imprecisione della definizione, ma mi garba troppo continuare a chiamarlo così, lo stereo, come a distinguerlo dal mono). Accogliere gli altri, e rispettarne la presenza, persino l’essenza, è tutt’altra cosa. Accoglierli senza imperfezioni, poi, è difficilissimo, per quanto possa sembrare necessario. Ogni imperfezione nell’accoglienza, infatti, equivale per lo meno a una scortesia. A questo proposito, avrei una storia da raccontarvi.
All’inizio degli anni Novanta, tre mercanti siriani venivano nella nostra azienda tessile a comprare lo stock, e cioè le pezze dei tessuti che non avevamo venduto nella stagione. Onestissimi, grandi pagatori, i siriani arrivavano da anni a Prato negli ultimi giorni di luglio, poco prima della chiusura estiva dell’azienda, quando sapevano che saremmo stati più morbidi nelle trattative, e volevano trattare solo con Alfiero, il socio più anziano, un personaggio ruvido e genuinissimo. Io traducevo dall’inglese.
Quella volta, diciamo fosse il 1992, i siriani comprarono molte pezze, e Alfiero, per una volta felice lui che affrontava la vita con l’astio incessante dell’imprenditore, decise di invitarli a pranzo in una trattoria famosa per la sua griglia. Dopo le pappardelle sul papero, che i siriani gradirono moltissimo, ricevetti una telefonata dalla mia fidanzata, e dovetti uscire dal ristorante. Fu una telefonata piuttosto lunga e, quando rientrai, il capo dei siriani, addentando una costola di rosticciana, mi chiese di tradurre ad Alfiero: – Signor Nesi Alfiero, ma che carne è questa? E’ buonissima.
Ora, non so se sapete cosa sia la rosticciana. E’ una specialità  toscana. Sono le costolette del maiale cotte sulla brace, condite con sale e pepe, e spennellate d’olio con un rametto di rosmarino.
Inorridito, vidi che sul tavolo campeggiava una grigliata mista, dalla quale i tre siriani pescavano con liberalità , dirigendosi proprio su quella carne che, non avendo mai mangiato, doveva sembrargli buonissima ed eccezionalmente saporita.
Mi scusai col siriano e dissi sottovoce ad Alfiero che i siriani erano musulmani, e non potevano mangiare maiale per motivi religiosi. Alfiero mi guardò con lo sguardo vitreo.
– Come? La religione? Icchè vuol dire?
– Vuol dire che non gli devi dire che era maiale. Sennò si offendono e non comprano più lo stock.
Alfiero mi fissò per un lungo attimo, mentre la comprensione di quel pensiero insostenibile si faceva strada dentro di lui.
– Gli dico che era manzo?
– Sì.
E così fece.
Eccola, l’accoglienza imperfetta.

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