Balestrini, montaggio di voci per una critica del presente

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Ci fu un momento in cui lettori sospettosi e prevenuti nei confronti della neoavanguardia in quanto partecipi del senso comune che la traduceva ipso facto nella letteratura della modernizzazione organica al neocapitalismo, colsero nel volume che raccoglieva i primi vent’anni del lavoro poetico di Nanni Balestrini (Poesie pratiche. 1954-1969, Einaudi 1976) una conferma apparentemente definitiva del loro pregiudizio. Quel libro, pensavano, era la più conseguente applicazione di una poetica, un esercizio supremamente manieristico che convocava a freddo sulla pagina stralci della lingua corrente, spezzoni dei gerghi culturali o della nascente glossolalia mediatica per sterilizzarli e sottoporli a un duplice gesto di rigetto, cioè spezzandoli tramite il cut up e isolandoli per straniamento. Che poi Balestrini, primo in Italia, avesse utilizzato i calcolatori elettronici per i suoi montaggi stranianti, questo aveva per alcuni il valore di una riprova, come si trattasse di un esercizio che esonerando l’autore dalla sua diretta responsabilità  creatrice affidasse all’automatismo della macchina il compito di una applicazione astratta e reiterabile a oltranza, di chi ha deciso di dimostrare sempre e comunque che vivere/esprimere/comunicare, qui e ora, corrisponde al trionfo o anzi all’apologia dell’inautentico. 
La sua modalità  era tanto conseguente, duramente dedotta dalle proprie premesse taciute ma per così dire auto-evidenti, che a qualcuno veniva paradossalmente di rispondere «sapevà mcelo» e di chiudere il libro (cioè di liquidare tutto quanto il primo tempo di Balestrini) come fosse in presenza di una dichiarazione di poetica tanto più prolungata quanto più impedita ad uscire dal proprio automatismo: che alcuni compagni di via e di rango eccezionale, da Edoardo Sanguineti a Fausto Curi, gli avessero già  dedicato pagine penetranti, per ulteriore paradosso poteva semmai alzare la posta e acuire il sospetto. 
Tuttavia, alla metà  degli anni settanta, nel silenzio poetico che all’intorno dilagava (e che taluni avrebbero a lungo messo in conto al Gruppo 63 e innanzitutto a Balestrini), non meno di altri due suoi libri avrebbero permesso oramai di coglierne il percorso e valutare retrospettivamente sia il contesto sia il senso del suo lavoro: nel ’71 era infatti uscito da Feltrinelli Vogliamo tutto, partitura in prosa per una voce sola, scaturita dal basso della condizione operaia più anonima e di massa, una diagramma dell’antagonismo allo stadio primordiale; poi, all’inizio del ’76, nientemeno nei «Coralli» di Einaudi con una fiammante copertina a firma Pablo Echaurren, quasi una suite di rosso rivoluzionario, era comparso La violenza illustrata, cioè il libro baricentrico del poeta milanese, nella cui sintassi (materiali giornalistici deietti, storie atroci della quotidianità , faits divers) la tecnica del taglio e del montaggio rivelava finalmente il suo spessore tridimensionale e dunque una valenza, a tutte lettere, politica: era chiaro che la poesia di Balestrini non rilanciava i sabotaggi più o meno ilari di un epigono dadaista, non perseguiva la messa in pagina dei precetti ammodernati della linguistica e delle cosiddette scienze umane, ma al contrario era critica in atto, una critica radicale del presente. O, meglio ancora, essa si configurava come una compiuta stilizzazione della parola al tempo del neocapitalismo, una parola elettiva e insieme costrittiva, alta e bassa nello stesso tempo, cioè di tutti e di nessuno: «autentica» solo in quanto pronunciata o agita, denudata senza infingimenti, dentro l’universo della totale inautenticità , la più ovvia e normale nel mondo che ci è dato qui-e-ora. 
La violenza illustrata non solo sfatò il pregiudizio ma permise a chiunque di riunire in un unico sguardo quanto precedeva a ciò che sarebbe seguito nella bibliografia del poeta, due metà  opposte e complementari che oggi stanno tra di loro come il recto sta al verso o come l’esplicito può stare all’implicito. 
Una polarità  che lo stesso Balestrini avrebbe resa ufficiale nel prosieguo, distinguendo la produzione in versi (la quale culmina in Le avventure complete della signorina Richmond, 1999, uno dei libri poetici del nostro tempo, e si suggella nel recente Caosmogonia, Mondadori 2010) dalla produzione in prosa che, a partire dal palinsesto di Tristano (allora ritenuto, nel ’66, un oggetto scritto di impervia decifrazione o persino di gratuita conformazione), culmina nella trilogia composta da Gli invisibili (’87), L’editore (’89) e I furiosi (’94), non una sequenza di romanzi ma una polifonia dedotta dai bassi dell’anonimato, un continuum che sgorga direttamente dalla zona infera della nostra società , «lasse narrative, a brevi capitoletti o paragrafi, un’andatura strofica che arieggia la specifica forma epica della medievale canzone di gesta» (come scrisse l’indimenticabile Mario Spinella, il cui rilievo è citato nel bel saggio balestriniano di Antonio Tricomi in La Repubblica delle Lettere, Quodlibet 2010). 
A simile modalità , e alla maniera di un prosieguo, si riferiscono Liberamilano seguito da Una mattina ci siam svegliati (postfazione di Antonio Loreto, DeriveApprodi, pp. 236, euro 16), l’uno dedicato alla vittoria di Giuliano Pisapia e perciò alla cacciata delle destre dal Comune di Milano, l’altro, una ristampa, incentrato sulla grande manifestazione ideata dal «manifesto» che si svolse nella stessa Milano il 25 aprile del ’94 all’indomani della prima vittoria elettorale delle destre. In entrambi i casi Balestrini utilizza il registrato di Radio Popolare e lo scandisce per blocchi seriali. Qui i gesti del taglio e del montaggio sono portati dall’autore nella piena condivisione dell’anonimato, perché l’autore esiste solo in quanto riordina e si mette nella condizione dell’ascoltatore. 
Il flusso, lo stormire delle voci, è il medesimo così come la fonte di emissione, ma molto differenti o antipodi risultano il contesto e l’orizzonte d’attesa: le voci di quel lontano 25 aprile sono ancora le voci del popolo diffuso, di una sinistra già  logorata ma non ancora estinta (persone comuni, ex partigiani, militanti di base), quelle che Radio Popolare trasmette viceversa il 30 maggio del 2011 dal palco in Piazza Duomo sono voci in molti casi trascritte da un computer (messaggi di ragazzi già  fuggiti all’estero, chiusi in casa o quelque part ) oppure sono voci troppo risonanti, con un nome e un cognome risaputo (cioè gente di spettacolo, cantanti, satirici, scrittori di best seller, insomma tutto il notabilato di sinistra la cui parte in commedia nel ventennio azzurro, lo si voglia o no, è stata quella dell’opposizione di sua maestà ). Quanto a ciò, l’accostamento di Liberamilano a Una mattina ci siam svegliati appare sintomatico mentre il tempo che intercorre fra l’uno e l’altro testo equivale a un passaggio di fase rovinoso, mortifero. 
Ha scritto di recente Balestrini, in uno dei passi più esatti di Caosmogonia: «(…) sempre più in fretta/ ispira col naso/ batte sempre uguale/ ritrovarsi ridotti/ qui ancora a dire fare/ per arrivare a/ adesso non respirare/ sani e salvi e non sapere/ più chi siamo né//». Questa è una conclusione tremenda ma forse è l’unica possibile, stando così le cose, per chi ha sempre creduto, con il maestro Lautréamont, che davvero la poesia dev’essere fatta da tutti e non da uno solo.


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