Avanguardie e ciclismo, prove di quarta dimensione

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Più che recensire, è il caso di segnalare Ciclismo, Cubo-futurismo e la quarta dimensione, la mostra in corso fino al 16 settembre alla Peggy Guggenheim di Venezia. Rientra in quel novero di esposizioni, poche purtroppo, che evitano i comodi epiloghi e aprono campi di studio. Non un’antologica né una rassegna storica, ma un corpus di pitture, sculture, fotografie, oggetti e disegni, riuniti attorno all’analisi di un quadro, Al velodromo (1912) di Jean Metzinger. L’obiettivo è esplorare, tramite il motivo del ciclista, il trattamento della quarta dimensione compiuto dalle avanguardie. 
Una corsa «inumana»
Alla cronaca di un Cubismo come paradigma dominante per via di Picasso e Braque, si affianca un racconto meno proclamato, e perciò meno riconosciuto, ma meritevole. La retrolettura di Erasmus Weddigen, curatore della mostra, spiega che il Cubismo eccede dallo schema analitico/sintetico affermatosi nel 1936 con la cernita di Alfred Barr. E include, fin dal 1910, artisti quali Apollinaire, Albert Gleizes, Robert Delaunay, Frantisek Kupka, Metzinger, che, a casa dei fratelli Duchamp, discutevano di geometria non-euclidea, dimensioni non visibili, Relatività . 
Il nome scelto da Metzinger per questo gruppo di cubisti è Section d’Or, rivelativo delle proporzioni matematiche nelle spirali sfaccettate di colore. L’interesse per la quarta dimensione, il tempo nella sua natura organica, nella percezione del cambiamento (la durée di Bergson), li rendeva più vicini ai futuristi che non ai colleghi Picasso e Braque. «Cubo-futurismo» è un’etichetta che ha ragion d’essere: per una falange cubista, la simultaneità  non è solo al servizio della scomposizione prospettica dei volumi, ma è uno strumento di resa spaziale del divenire. 
Obiezione, vostro onore – sembra dire Weddigen a Barr. Memorabili le mostre che funzionano non per addizione, ma per ripensamento delle precedenti: fanno evolvere la storia dell’arte.
Conta molto che questa ricerca tra arti e scienze abbia trovato sperimentazione concreta in una gara sportiva. Vicino a Puteaux, sobborgo di Parigi dove abitavano i Duchamp, aveva inizio la Parigi-Roubaix o «Enfer du Nord», dati i suoi sessanta chilometri di cubetti di porfido. Una corsa «inumana» – la definirebbe il Barthes dei Miti d’oggi. Al velodromo, tela di Metzinger di proprietà  di Peggy Guggenheim, immortala il vincitore dell’anno, Charles Crupelandt, la cui identità  è svelata da Weddigen con diagnostiche non invasive. Emerge un papier collé cancellato che ne indicava il nome, insieme ad altri pentimenti e alla data, 1912 e non ’14. E si scoprono i colori utilizzati, alchemici: bianco di zinco, giallo cadmio, rosso cinabro… Il quadro è progettato e approfondito attraverso due disegni, il pannello a olio Il ciclista e la tela Corridore ciclista. 
Corpi smaterializzati
Costellano la serie di Metzinger una sua opera di recente ritrovamento, Composizione cubista con orologio (1913 c.), emblema della mostra – il cronometro rima qui con la crescita di una spirale aurea – e varianti sul tema. Si vedono il Dinamismo di un ciclista (1913) di Boccioni, i Ciclisti di Depero, Sironi, Severini, la Scatola in una valigia (1941) di Duchamp della Peggy Guggenheim, il cui statuto selettivo e combinatorio dà  risalto alla ripetizione figurativa della ruota. I raggi formano un’entità  3D; messi in movimento, proiettano la ruota nella quarta dimensione. 
L’indagine andrebbe proseguita, convocando le teorie di uno storico dell’arte americano, Meyer Schapiro, che ha riflettuto, da un lato, sull’insoddisfazione di Duchamp per l’aspetto statico del Cubismo di Picasso, dall’altro sui rapporti tra le arti e l’Elettrodinamica dei corpi in movimento (1905) di Einstein. Questi dichiarava che «il Cubismo non ha nulla in comune con la Relatività » e aggiungeva però che la simultaneità  è percepibile quando gli oggetti osservati, e le distanze tra loro, sono prossimi allo spazio dello spettatore o, anzi, in collisione con noi, coincidenti nello spazio-tempo (Einstein, Cubism and Relativity, 1946). Ecco che prende senso la speciale velocità  del connubio uomo-ruota, diversa da ogni altra macchina e in cui è valsa la pena di investire per la figurativizzazione del tempo. Se il cubismo sintetico orientava Braque, Picasso e Gris a lavori stratificati sulla superficie, di collage tra lettere e immagini, i cubo-futuristi cercano la quarta dimensione nella corsa in bicicletta, ciascuno con metodi personali: Duchamp mediante la demoltiplicazione cinematica, i futuristi smaterializzando i corpi nella luce (si pensi al Ciclista di Natalia Goncharova), Kupka sostituendo la sequenza di un movimento con una miriade di singoli spostamenti. 
Anche Metzinger offre la propria soluzione, allo stato di bozzetto, ma riuscita: in Al velodromo le membra del corridore, volto compreso, sono affacciate in primo piano, prospicienti al frame enunciazionale, come intersezione di solidi trasparenti. Crupelandt sta tagliando il traguardo in uno spazio che sconfina dal mondo pittorico, verso lo spettatore. Le ruote simulano il tremolio sul porfido, mentre la granulosità  della sabbia riportata suscita adesione somatica.
Schizzi e marchingegni
In mostra sono anche esposti il trofeo della gara, costituito da uno dei blocchi del selciato, e biciclette antiche e moderne: una Alcyon del 1912; modelli in legno tratti da un falso schizzo di Leonardo; la bici di Fabian Cancellara, vincitore delle Parigi-Roubaix 2006 e 2010; il prototipo in fibra di carbonio di Aria (2009-11), del designer Marco Mainardi; un biciclo progettato dall’Università  di Tubinga per un viaggio virtuale alla velocità  della luce, con gli effetti della Relatività : dilatazione del tempo e contrazione delle lunghezze. Il Giardino delle Sculture ospita infine Cyclosna, freddo marchingegno di Paul Wiedmer che ironizza sull’idea di «ciclicità ».


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