Assalto al ponte girevole: «Fateci lavorare»

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TARANTO — Sono le sette e mezzo del pomeriggio quando i rappresentanti sindacali di Fim, Fiom e Uilm escono dalla prefettura e con un megafono provano a spiegare agli operai che c’è da aspettare ancora. La sorte dell’Ilva non è per niente chiara, «il prefetto dice che prima bisogna leggere le ordinanze» provano a spiegare, «domani…». La rabbia diventa un misto di insulti e fischi che coprono le parole del sindacalista. «Buffoni» urla una prima voce dal fondo della strada, «non avete combinato niente come al solito» segue un’altra, «domani un c…, noi abbiamo bisogno di lavorare oggi» si fa sentire un ragazzo con una bandiera della Fim-Cisl arrotolata al collo. 
E così quando il corteo sembrava ormai sciogliersi ecco che tutto ricomincia daccapo. Il gruppo dei più arrabbiati si dirige a passo svelto verso il ponte girevole, snodo principale per il traffico della città  che nel giro di cinque minuti è paralizzata. Di nuovo ferma, dopo un pomeriggio di passione per gli automobilisti e i mezzi pubblici. Il centro è di nuovo bloccato. Pugni contro un autobus fermato proprio mentre attraversava il ponte, un malinteso fra un fotoreporter e qualche operaio, blocchi con discussioni infinite di gente che cerca di passare in motorino. Insomma: situazione tesa ma nessuno scontro, nessun incidente. Rabbia, quella tanta. Una rabbia che viene da giorni vissuti sul filo dell’incertezza e che ieri è esplosa davanti allo schermo di una tivù locale, all’una e mezzo del pomeriggio. Il cronista di turno parlava delle ordinanze firmate dal giudice, diceva del sequestro dell’area a caldo dello stabilimento e degli arresti di Emilio e Nicola Riva. E la fabbrica all’improvviso si è fermata. Mobilitazione generale, tutti fuori a protestare e a bloccare la città . Uno spilungone di nome Antonio è fra i primi a uscire, bandiera della Fiom sulle spalle e occhi lucidi di un’emozione «che nemmeno io so spiegare» dice. «Lo sapevamo tutti che c’era la possibilità  di chiudere la fabbrica ma sentirselo dire davvero è un’altra cosa…». Lo interrompe un collega, Nicola, che gli si affianca nella marcia lenta verso il centro di Taranto, «è arrivato il momento di difendere fino all’osso il nostro posto di lavoro perché di questo si tratta: di lavoro. Noi stiamo difendendo il nostro futuro». Nessuno sa bene cosa ci sia scritto nell’ordinanza di sequestro, nessuno sa dire se il giudice ha concesso vie di fuga per salvare l’occupazione oppure no ma poco importa: la sola idea che qualcuno possa aver scritto la parola «blocco» oppure «spegnimento» del reparto a caldo dello stabilimento è «un buon motivo per fermare la città  finché qualcuno non ci ascolta» come annuncia Giuseppe Calviello, da quasi undici anni al reparto minerario e ormai da settimane insonne, «mi alzo ogni mattina senza sapere se potrò andare a lavorare oppure no, le sembra vita questa?».
«Lavoro» è la parola sulla bocca di tutti, «si tratta della vita nostra e delle nostre famiglie, non è roba da poco» considera una delle poche ragazze in corteo. Niente nome, «scriva che sono dell’Ilva, noi qui siamo tutti uniti, come se avessimo un nome solo». 
Francesco Laddomada è un consigliere regionale della commissione ambiente. Sotto il sole cocente di ieri pomeriggio era l’unico che si aggirava fra gli operai in giacca scura. «L’Ilva impugnerà  il provvedimento immediatamente» ha provato a spiegare a un gruppetto che gli si è stretto attorno davanti alla prefettura. «Sarà  meglio, lo ha interrotto uno dei suoi interlocutori. Sennò quelli che vede qui diventeranno il doppio, il triplo, e fare un casino che nemmeno ve lo immaginate…». Lui è paziente, mantiene la voce calma, dice che «si dovrà  valutare il provvedimento del giudice e capire quali conseguenze porterà …», «qui stiamo invertendo la rotta» gli risponde il più infervorato del gruppo, «non è più tempo di fare le manifestazioni civili, il posto di lavoro non si tocca e se arriveranno i licenziamenti vedrete di cosa saremo capaci». 
Matteo lavora nel reparto laminatoio a freddo: «Teoricamente noi non saremmo interessati dalla chiusura ma nella pratica non è vero» giura. «Chiudere il reparto a caldo vuol dire mettere sulla strada ventimila famiglie. Quello che diciamo noi al giudice è: dateci i parametri da rispettare e vedrete che l’Ilva li rispetterà ». Non c’è operaio dello stabilimento siderurgico che non abbia parole buone per la famiglia Riva. Emanuele Falcone, per esempio, da undici anni nel reparto manutenzione e carpenteria. Non vuole nemmeno ipotizzare che «il vecchio» (Emilio Riva) lasci Taranto per reazione a quello che sta succedendo sul piano giudiziario. «La famiglia Riva non ci abbandonerà  né si arrenderà  mai» è convinto, «vogliamo solo che ci lascino lavorare ed è giusto metterci in regola con l’ambiente. Lo faremo. Ma non buttateci in mezzo a una strada». 
In mezzo alla strada, fisicamente, gli operai dell’Ilva ci sono rimasti tutta la notte. Seduti lungo il ponte girevole o in piedi a formare capannelli improvvisati per decidere le strategie di lotta. Tanto per cominciare sciopero a oltranza, stamattina alle sette assemblea in fabbrica e poi si vedrà . Una cosa è più certa delle altre: non siamo che all’inizio.


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