Artisti cinesi in Toscana sotto il segno della farfalla

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Proprio a Montepulciano, eletta a residenza di campagna da Piero Calamandrei, sono custodite numerose opere d’arte, collezionate da lui e dal figlio Franco negli anni Cinquanta in Cina. Corrispondente dell’Unità  a Pechino dal 1953 al 1956 e appassionato d’arte, Franco Calamandrei esplorò i negozi di antiquariato della capitale cinese alla ricerca delle opere di Qi Baishi, un maestro assoluto dell’arte cinese fra tradizione e modernità . Ne trovò ben cinque, che lo accompagnarono al suo ritorno in Italia. Lo stesso anno, la Biennale di Venezia dedicò una personale all’artista, la cui grandezza venne riconosciuta dai critici italiani. E non solo dai critici: è famosa la frase di Picasso in una conversazione con un pittore cinese: «In Cina non ci vado, c’è Qi Baishi». Il grande artista è oggi tornato alla ribalta per le cifre da capogiro con cui vengono vendute all’asta le sue opere. 
Alla Fortezza di Montepulciano i cinque pezzi acquisiti da Calamandrei – quattro rotoli con motivi vegetali e animali, e una veduta di campagna policroma – saranno per la prima volta esposti al pubblico. E accanto a Qi Baishi esporranno le loro opere due pittori cinesi di oggi – Zhang Jin e Xu Shihu – per creare un ponte ideale fra la pittura a inchiostro del maestro e la sua eredità  contemporanea. Zhang Jin, un artista che trova rifugio e ispirazione percorrendo le montagne della sua regione, la provincia dello Hebei, presenta 16 inchiostri su carta di riso che riflettono una attenta rielaborazione della calligrafia applicata al paesaggio. Xu Shihu, docente e preside della Facoltà  di Arte dell’Università  di Chongqing, è presente con 26 acquarelli con colori accesi, che testimoniano il suo interesse per il rapporto tra pittura, design e comunicazione visiva. 
A parte i dipinti, saranno esposti anche numerosi volumi delle collezioni cinesi conservate nella Biblioteca di Montepulciano che comprendono, fra l’altro, antichi testi del fondo gesuitico, donazioni di Elemire Zolla e di sinologi, nonché la documentazione relativa ai contatti con la Cina di Cesare Nerazzini, console a Shanghai alla fine dell’Ottocento, e al viaggio della delegazione culturale guidata da Piero Calamandrei nel 1955. E fra i rimandi non si può non ricordare che la curatrice della mostra, Silvia Calamandrei, figlia di Franco e nipote di Piero, ha vissuto con i genitori in Cina da bambina, è andata alla scuola cinese e in seguito è tornata a metà  degli anni settanta con le prime borse di studio per gli europei. In lei continua il forte legame con la Cina di tutta la famiglia. 
A quell’esperienza Piero Calamandrei dedicò un numero speciale della rivista «Il Ponte», la cui copertina riportava l’immagine di una farfalla rossa, con le cinque stelle della bandiera cinese su un’ala, che volteggiava su un drago giallo. Da qui l’ispirazione per il titolo della mostra. Soprattutto nel linguaggio giornalistico il drago è oggi usato come sinonimo di Cina, mentre tradizionalmente indicava l’imperatore, ed è probabilmente in questa accezione che lo utilizzò Piero Calamandrei. Nel mettere la farfalla sopra al drago, alludeva a una rinascita, esprimeva la sua fiducia nel futuro del paese, vedendo in essa il simbolo della libertà , dell’arte e della poesia. Nell’Inventario della casa di campagna (1941) descriveva infatti le farfalle come «una rete di nomadi associati girovaganti per il mondo», in un «regime di vagabonda anarchia che consente a ciascuna di esse di riprendere ogni mattina, senza comitiva e senza passaporto, le rotte fantastiche di un cielo senza frontiere». 
La lievità  di queste parole si associa alla vena più libertaria della tradizione cinese, il Taoismo, che rimanda al celebre passaggio del Zhuangzi in cui si narra che il filosofo una notte sognò di essere una farfalla che volteggiava libera. Quando si svegliò non sapeva più se era Zhuangzi che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che sognava di essere Zhuangzi. La farfalla è il simbolo della mutazione, del cambiamento, della trasformazione, dell’evoluzione in qualcosa di bello e leggiadro, è dunque anche un auspicio quello che esprima la mostra, affinché nel contraddittorio sviluppo della Cina non si dimentichino le eccellenze della sua tradizione.


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VENEZIA. ANCORA una volta un film italiano non ha vinto il Leone d’Oro, che è andato a Pietà  di Kim Ki-duk, primo film coreano a ricevere il massimo riconoscimento della mostra. Era una vittoria annunciata da giorni.

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