by Editore | 10 Luglio 2012 8:46
Per fare il punto sulla dialettica interna alla galassia dei «turbanti neri» abbiamo incontrato due specialisti: Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso degli studenti coranici, e un analista afghano, che preferisce mantenere l’anonimato.
Giustozzi spiega che gli incontri di questi ultimi mesi, compreso quello avvenuto a ridosso della conferenza di Tokyo e a cui ha partecipato un rappresentante talebano, «rappresentano solo il tentativo di tenere aperto un canale di comunicazione, un gesto disperato, nulla di più». I veri colloqui, quelli da cui potrebbe uscire un accordo, «si tengono in segreto, semmai». Il fronte pro-negoziati, inoltre, sarebbe ora minoritario, vittima di quella che i Talebani considerano «un’imboscata politica». Il riferimento è ai colloqui intorno all’apertura di un ufficio politico dei turbanti neri in Qatar, di cui molto si è parlato nei mesi scorsi. «I Talebani sono convinti che la notizia sia stata deliberatamente girata ai media, per metterli in una situazione insostenibile, nel periodo più delicato di ogni negoziato, quando ci si compromette parlando con il nemico, senza avere ancora nulla in cambio da portare a casa». Dal punto di vista dei Talebani, «l’iniziativa del Qatar è stata un disastro: nessun risultato e molte ripercussioni negative». Tra queste, una spaccatura interna, tra l’ala militare, più vicina ai pakistani, più radicale e meno incline al compromesso (c’è chi dice che la sede sia a Peshawar), e l’ala politica, riconducibile alla Shura di Quetta, ormai aliena rispetto ai comandanti sul terreno. «Questi ultimi sono rimasti confusi, non si spiegano quell’iniziativa. Anche se si riuscisse a includere qualcuno della commissione politica talebana in un futuro governo, non cambierebbe molto sul terreno: i comandanti si sentirebbero traditi». Nessuna speranza, dunque, di chiudere il negoziato prima del 2014. «A meno di un gesto clamoroso da parte dell’amministrazione americana, che potrebbe avvenire dopo le elezioni». Il rilascio di alcuni prigionieri talebani, per esempio, favorirebbe un accordo politico di ampio respiro. Ma bisognerà aspettare. Per ora, i Talebani continuano a combattere, anche se «indeboliti, soprattutto al Sud, a causa della conflittualità interna. Ma già in passato hanno dimostrato di sapersi riorganizzare», conclude Giustozzi.
Le cause della debolezza nel sud dell’Afghanistan vanno imputate anche ad altri fattori, come ci spiega l’analista afghano: i colloqui sull’apertura dell’ufficio in Qatar hanno fortemente infastidito i pakistani, consapevoli che per i Talebani si trattasse di un tentativo per bypassarli, acquisendo maggiore autonomia. Così, i pakistani hanno deciso di tagliare i finanziamenti all’ala pro-negoziati, preferendo «avere meno talebani sul proprio libro-paga, ma più fidati e fedeli». Da qui, la debolezza al sud. Il vuoto lasciato libero dai pakistani, ci spiega il nostro interlocutore, è stato però riempito dagli iraniani. «Se fino a poco tempo fa si limitavano a finanziare i soli comandanti (in genere 4 per ogni provincia), ora sono interi fronti a essere finanziati». I soldi degli iraniani, «pochi milioni di dollari, non sono sufficienti a garantire l’efficacia militare al sud, ma abbastanza per evitare le diserzioni e tenere in piedi quei gruppi che possono essere usati contro gli interessi americani nella regione».
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